Pop dolce e cristallino, jangle purissimo di seconda mano. Via del tutto il rumore di fondo e il fuzz, benvenute atmosfere sognanti da Sarah e continui ammiccamenti agli Smiths e ai Cure.

Atmosfere e ammiccamenti che c'erano già. I Pains of Being Pure at Heart avranno cambiato un sacco di membri per strada, ma la loro impronta è sempre inconfondibile. Un'impronta-revival, beninteso. Si potrebbe dire che il cambio di rotta intrapreso dopo il primo disco più che introdurre novità abbia tolto elementi. La cosa funziona?

Funziona, perché sono tutte canzoni ben scritte, ben suonate e con belle melodie.

Funziona fino a un certo punto, perché il disco non va mai oltre al "ben scritto, ben suonato e con belle melodie".

Si fa piacere, non esalta, diverte il fan del pop, scontenta il fan del rumore, si fa piacere da chi amava il gruppo sin da prima, si fa odiare da chi già prima non li apprezzava.

Mi concedo ancora una volta la mia mezzoretta/trequartidora di zucchero filato rosa, che non appiccica le mani ma che resta in testa per un'ulteriore mezz'ora, insieme a tante immagini mentali di caramelle, filtri lomo e fidanzate annoiate dall'altra parte del telefono. Tutto ciò che amo ascoltare quando sono di umore incerto, tra il malinconico e il rilassato, né allegro né triste. Tutta roba molto bella, e una volta me lo ascolto più che volentieri. Ma con così tanto altro twee pop potenzialmente a portata di mano non so se lo ascolterò tre volte.

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