Dal 1979 al 1982, i Police sono stati in giro per quattro anni senza vere e proprie soste. Hanno conquistato l’America quasi senza accorgersene, e le scene di isteria nei loro concerti hanno portato molti esperti di costume e società di parlare di “Policemania” - che non era l’assurda e folle “Beatlemania”, ma ci si avvicinava parecchio. Anche mio padre, buon’anima, li conosceva, e se li conosceva lui, completamente digiuno di musica, questo dice davvero quanto è stata grande la loro popolarità tra il 1979 e il 1984.

Ora, dopo tre anni folli, i tre si concedono una pausa. Ed ecco che tirano fuori un disco che, benché Pop, e musicalmente meno fantasioso di “Reggata de Blanc”, si troverà sempre in ogni albo d’oro dei classici della musica popolare.

“Synchronicity” è il “Pop d’Autore”: il Pop fatto a regola d’arte. E uso la parola “arte” a ragion veduta: la “sobrietà e la misura” di certe canzoni (su tutte “Wrapped Around Your Finger”) fanno davvero pensare alla “perfezione classica” di certe opere d’arte.

L’intro è una frustata, anche se la tastiera iniziale non mi fa impazzire. La versione live la preferisco, più minimale. Ovviamente anche la versione in studio è un gioiello. Qui, nel testo, Sting parla della sincronicità junghiana. Il testo, francamente, è un pout-pourri, dove Sting, forse troppo entusiasta delle sue nuove letture, vuole ridurre tutto alle idee di Jung. Ad ogni modo, notevole il modo in cui parole e musica sono unite insieme.

“Walking in Your Footsteps” è il primo dei tanti “lenti-capolavoro” del disco. Qui c’è Copeland ai tom, e Summers quasi impercettibile, ma, come al solito, efficacissimo. Nel live, Stuart passa allo xilofono e Andy è più presente con dei fraseggi più malinconici. Il testo, per me, è magnifico perché ironico e amaro allo stesso tempo: come il brontosauro è scomparso a causa dell’evoluzione, così noi umani rischiamo di scomparire per la follia dei potenti che minacciano ogni giorno di far esplodere la bomba atomica (“if we explode the atom bomb”). Nel 1982, il pericolo di una catastrofe nucleare era molto reale, e di questo pericolo ne parlarono anche gli U2, in modo più diretto e meno simbolico, in “Seconds”.

“Oh, My God”. La musica si sviluppa con il basso in primo piano, a cui si uniscono poi Summers, e un bellissimo sax leggermente “stonato”. Ma qui è il testo il vero gioiello, un capolavoro di sincerità. “Ogni persona che conosca è sola, io non appartengo a nessuno, e così ogni tanto prego”. Sting ammette il suo vuoto interiore e chiede a Dio di colmarlo in qualche modo: “Fill it up in some way”. Benché la canzone sia musicalmente ottima, l’intimismo così profondo dei versi meritava un lento. Ho sempre pensato che la musica di “Tea in the Sahara” sarebbe stata più appropriata.

“Mother” è un lavoro fantastico alla chitarra, di uno dei più grandi chitarristi della musica popolare, così bravo da ricevere anche le lodi del “maestro Re” Robert Fripp. Lennon (vista la musica raccapricciante) ci avrebbe costruito sopra un testo in cui avrebbe urlato il suo desiderio di affetto materno. Summers invece fa l’opposto e scrive un semplice ma ironico testo contro le madri troppo oppressive e soffocanti: “Tutte le ragazze con cui esco alla fine diventano mia madre. Ma non ho bisogno di lei come amica. Bene, io sento mia madre che telefona. Oh mamma cara per favore ascolta e non divorarmi”. Oggettivamente un capolavoro, anche se non l’ascolterei mai due volte di fila. In realtà non l’ascolto quasi mai. Troppo estrema per me.

“Miss Gradenko” è di Copeland. La creatività musicale è fuori questione, ma quella melodia banale e infantile la fa sembrare quasi una filastrocca. Questa non l’ascolto proprio mai.

Da questo momento, nonostante la cattiva disposizione dei pezzi, ogni canzone è un classico.

“Synchronicity II” è un eccellente pop-rock. Summers fa ancora benissimo il suo lavoro e poi lo eleva con un “assolo di feedback”. Il testo è ancora eccellente: parla della giornata di un uomo che al mattino osserva la sua famiglia, con la frustrazione della moglie, le urla della suocera; poi va a lavorare, trova le segreterie agghindate come prostitute, lo aspettano gli insulti del datore di lavoro, le fabbriche che continuiamo ad inquinare il cielo, e poi il triste ritorno a casa imbottigliato nel traffico. Il riferimento al “lago scozzese” si riferisce, secondo me, alla reazione da mostro di Lochness che potrebbe avere un giorno a causa della triste routine a cui è sottoposto. Tra le migliori del gruppo – per musica e testo.

Ed ecco “Every Breath You Take”. Sting la portò in studio in una versione con l’organo, senza pretese. Fu il genio di Andy che ne vide il potenziale. Sting, conoscendo la grandezza del compagno alla chitarra (vedi “Invisible Sun”) gli disse: “Fanne tutto quello che vuoi”. E Summers inventò il suo immortale stoppato ... Qui Andy dimostra davvero il suo genio, cioè la capacità di mostrare la grandezza delle cose semplici. Come disse Copeland in un’intervista del 1997: “Senza Andy quella canzone non sarebbe niente”. Ciò che è triste è che, sugli spartiti, si legge ancora “Music and Words by Sting”.

Il cantato è molto bello. Peccato che il secondo bellissimo falsetto di Sting nel finale sia sfumato, e lo si possa ascoltare solo se si alza il volume.

Intelligentemente discreto Copeland, specie nel coro finale. Come disse in una intervista: “E’ la mia performance preferita, perché è compatta”. Quel “compatta” per me significa “senza mai mettersi in mostra”. Stuart qui fa un passo indietro, come un po’ in quasi tutto il disco. Se in questo pezzo si fosse abbandonato alla sua fantasia, avrebbe distratto l’attenzione dal cantato e dalla chitarra. Qui, invece, accompagna silenziosamente il gruppo, come un leader silenzioso guida una squadra. Magnifico.

Il testo riguarda un uomo che non riesce a smettere di “guardare con gli occhi della mente” la donna che lo ha abbandonato, cioè nel non riuscire a smettere di pensarla. Non è una canzone sdolcinata e melensa. Il testo descrive un’ossessione malata di un uomo fermo al passato, e che non vuole andare avanti. E per questo la cupezza della musica si unisce alla perfezione alle parole, che sono quelle di una persona maniacalmente fissata e depressa. Per quel che riguarda le liriche, in qualche punto sono un po’ adolescenziali (“I keep crying baby, please”) e anche incoerenti, quando dice “Every night you stay” (come se lei ci fosse ancora), quando poi si capisce che se n’è andata (“Since you have gone”). Assurdo il titolo - che avrebbe dovuto essere, ovviamente, “I’ll Be Wathcing You”, perché di questo parla il testo. La razionalità spesso è un optional. Pessima, davvero pessima, la posizione. Una canzone così può stare solo in un posto: alla fine del disco. Perché dopo una canzone così, c’è solo il silenzio.

Si ritorna sulla terra con “King of Pain”, che rimane comunque una bellissima canzone pop. Qui Copeland allo xilofono, con il piano in bella vista che poi lascia la scena a Summers con i suoi tipici fraseggi e ad uno dei suoi pochi assoli. Ma è il testo che è un capolavoro. Qui Sting dimostra di avere un buon talento come simbolista, quando descrive come si sente “un re sul trono con gli occhi strappati, un salmone morto congelato in una cascata, una balena arenata sulla spiaggia dal riflusso della grande marea, una farfalla intrappolata nella tela di un ragno, un gabbiano dalle ali nere con la schiena rotta, un uomo ricco che dorme su un letto d'oro”. Queste immagini descrivono la sua anima (“That’s my soul out there”). Alla fine conclude tristemente: “Sarò sempre il re del dolore”, cioè non vede via d’uscita alla sua alienazione (vedi la balena arenata, a rappresentare un pesce fuor d’acqua), e al suo dolore. Raramente ho sentito celebrazione del testo di questa canzone. Se lo meritava.

“Wrapped Around Your Fingers”: quando il lento diventa arte. Qui c’è un uso così sapiente di elettronica, chitarra, e anche batteria da farmi parlare di arte Pop. La tastiera è magnifica, come i fraseggi delicatissimi di Summers. Lo stesso Copeland fa quasi “suonare” la batteria, col suo lavoro misuratissimo sul cerchio e sui piattini. Nessuno va “over the top”. Se dovessi dare un titolo a questa canzone, direi: sobrietà.

“Tea in the Sahara” parla di un gruppo di sorelle che finiscono bruciate nel deserto, dopo aver soddisfatto un ultimo desiderio. I versi sono molto belli nelle immagini, ma inutili. È il banale racconto di una storia. Un melodia così bella non doveva essere sprecata in questo modo. Messo da parte il testo, la canzone è un altro lento-capolavoro. In origine, il disco finiva qui. Non è la fine che avrei scelto io, ma comunque una gran conclusione.

“Murders by Numbers” era la B-side di “Every Breath You Take”. Venne aggiunta successivamente nella versione CD. Il testo è agghiacciante, pur essendo ironico, e lo si capisce solo alla terza strofa: se vuoi uccidere senza spargere una goccia di sangue, diventa un politico. La musica è buona, ma è chiaro che dopo le canzoni precedenti, questa è una canzone davvero minore, che chiude in tono minore il Capolavoro.

“Synchroncity” vendette 16 milioni di copie e venne portato in tutto il mondo tra l’estate del 1983 e il Marzo 1984. Il Marzo 1984 è la fine (non ufficiale) dei Police come gruppo. Storico il loro concerto nell’Agosto 1983 allo Shea Stadium, lo stesso che vide il massimo trionfo (popolare) dei Beatles (Agosto 1965). Sting disse: “Quella sera allo Shea Stadium capii che non potevamo fare niente di meglio…. Finimmo al top, e la leggenda è intatta”. Sarebbe bello se lo scioglimento fosse stato così liscio e nobile …

La verità è ben altra. Come disse lo stesso Sting anni dopo: “Ero arrivato al punto che se portavo in studio 12 canzoni, io volevo che tutte le 12 canzoni fossero nel disco. Non avevo più voglia di combattere per ogni pezzo”. Questo “delirio di onnipotenza” è il vero motivo della fine ... Quasi tutte le canzoni presenti in questo disco vengono dalle idee di Sting. Ma senza gli altri due, sarebbero rimaste solo bellissime idee. Sting lo avrebbe dovuto capire pensando a quello che sarebbe stato “Every Breath You Take” senza Summers. Il delirio di onnipotenza lo portò a credere che sarebbe stato capace di fare altri “Synchronicity” da solo. Ovviamente, non ci fu mai nessun “Synchronicity“ a firma Gordon Summer.

A questo si aggiungano i (letteralmente) selvaggi litigi con Copeland. Le liti durante il making di “Synchronicity” sono passate alla storia quasi quanto il disco. Tra le due teste calde volarono insulti e anche cazzotti, e si arrivò ad un passo dallo scioglimento. Come disse uno dei collaboratori del disco: “Stuart e Sting, in quel periodo, si odiavano reciprocamente”. Fu solo con l’intervento di Miles Copeland, manager del gruppo, che si decise di concludere l’album.

Copeland era, ed è, un uomo modestissimo, gentile e sempre sorridente. Ma non tollerava che Sting lo considerasse un comprimario, e non era certo uno che aveva timori reverenziali di sorta – essendo un compositore superiore al “pungiglione”. E allora Stuart sgonfiava sempre il pallone dell’EGO del compagno quando questo si gonfiava troppo. Sting non lo sopportava e reagiva male. Ad un certo punto, “cuore d’oro Summers” non riuscì più a mediare tra i due, e fu la fine.

Da questo momento, i due continueranno ognuno per le loro strade. Copeland farà cose molto creative – ci sono persone che letteralmente lo adorano e lo considerano un genio compositivo ancora più che un grande batterista – ma senza la capacità di toccare il cuore della gente. Sting, dopo belle cose all’inizio, cadrà nel pop facile.

I Police mi davano l’impressione di una “creatività naturale” – quasi come se i loro dischi siano stati fatti senza vero sforzo. Se non avessero fatto in fretta e furia, per esigenze discografiche, “Zenyatta Mondatta”, ma avessero fatto un solo disco nel 1981, oggi avremmo 4 grandi dischi in 5 anni.

Lo dico: lo scioglimento dei Police mi suscita più rimpianti di quello dei Beatles, perché credo che i Beatles, pur nella disparità di risultati, diedero davvero tantissimo durante i setti anni di collaborazione. Potevano fare molto di più, ma quello che hanno fatto è comunque tantissimo - oltreché splendido. Nel caso dei Police, invece le grandi cose che potevano fare insieme, mi sembrano molto più di quelle che hanno fatto. Quello che fecero, per me, è solo la punta dell’iceberg. È andata così.

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