C'è chi preferisce gli album live, chi quelli registrati in studio. Per i primi le esibizioni dal vivo mostrano una componente in più, l'energia che si sprigiona dalle stesse a scapito (spesso) della precisione d'esecuzione; secondo i cultori degli album da studio, invece, la creatività che si sviluppa tra le mura degli studi non può essere paragonabile a qualsiasi live anche se doveroso è sottolineare come le esibizioni sono un'ovvia conseguenza di canzoni progettate in precedenza.

Per quanto mi riguarda, sono del parere che il valore di un gruppo si dimostri realmente attraverso le esibizioni dal vivo: l'arte del suonare è "nata" storicamente nella performance dell'artista davanti al suo pubblico, lontano da studi che ne potrebbero modificare - e di conseguenza falsificare - la vera abilità. Volete un esempio? Servito: loro Maestà Beatles hanno dato il meglio di sé negli studi della Apple, dopo aver abbandonato performance live che definire scadenti è un eufemismo. Come sciogliere allora questo nodo? In realtà, come tutta la musica ci insegna, ognuno ha la sua idea, e tutto è (più o meno) soggettivo.

La premessa era doverosa, per valutare il primo doppio dal vivo della discografia Stones. Ed una domanda sorge allora spontanea: in questo caso il gruppo inglese ci ha guadagnato? Bè, a giudicare dalle vendite dell'epoca sembrerebbe di sì: numero tre in classifica inglese nell'anno 1977. Ma da tempo i Nostri sono in fase calante, la favolosa serie 1966 - 72 si era conclusa da un pezzo, i soliti problemi di Richards non aiutano, Wood dopo l'ottimo esordio '76 conta poco più di zero, e questo inevitabilmente si riflette sulle prestazioni. Così, per rilanciare una carriera avviata verso un lento ma inesorabile declino, la premiata ditta J&R ha l'idea di registrare il meglio di concerti tenuti tra club e teatri, in tre differenti città (Los Angeles, Londra e Toronto). Sono presenti i soliti ospiti, Ian Stewart e Billy Preston, oltre ad Ollie Brown, ma certo non bastano a risollevare un generale clima di trascuratezza, quasi di spocchiosa ostentazione della propria superiorità. Nonostante l'indubbio valore delle canzoni e degli esecutori, il gruppo è svogliato, capitanato da un Jagger che si impegna, tra un farfugliamento e l'altro, e comunque poco assistito dagli altri, Richards su tutti. Ne escono fuori, a pezzi, classici blues di maestri del genere ("Little Red Rooster", di Chester A. Burnett, ed "Around and Around" di Chuck Berry), e i vecchi successi ("Jumpin' Jack Flash", "Honky Tonk Women", "Brown Sugar", "Tumbling Dice"). Uniche impennate, "It's Only Rock 'n Roll", nella quale finalmente si sente un piano degno di questo nome, e l'infuocata esibizione di "Star Star"; menzione speciale infine per "Mannish Boy" nella sua stupenda rilettura, tratta da Bo Diddley.

Non consiglierei questo lp a chi vuole avvicinarsi per la prima volta al gruppo inglese, anche se paradossalmente la mia esperienza personale mi ha portato ad agire così, fino ad avere la discografia pressoché completa. Gli Stones hanno fatto e sanno fare ben altro.

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