In questi giorni - nei lunghi viaggi in auto - ascolto soprattutto Gino Paoli. Cioè, diciamolo, questo fantastico ottuagenario, vado a memoria, ha scritto le più belle canzoni d’amore in italiano di sempre (67 parole d'amore, Io so perché l'amore, Averti addosso). Tuttavia, da una cartella all'altra, anziché Luigi Tenco o almeno Enzo Jannacci, spuntano gli Strokes. Beh, eh, già. Il venerdì me li mettevo sempre a palla fino a grossomodo venerdì scorso. In collina, poi, sono una goduria sulla carreggiata stretta e i tornanti continui, che non vedi mai i frontisti arrivare e, quando ti spuntano davanti all’ultimo, li guardi con rabbia. Ah, sì. Si comincia malissimo la salita al primo colle. Lì c'è quel cazzo di ritratto in bianconero di Mussolini con l'elmo, su di una parete di una specie di osteria del cazzo, che mi dà il voltastomaco ogni volta, cazzo! A Carnevale – finalmente – qualcuno l’aveva trasformato in clown. Ma il titolare, forse l’unico a notare una differenza sostanziale, ha ripassato i colori in modo manicheo. Probabilmente mentre faceva le prove contro al muro...

Gli Struccoli/Strokes hanno il sopravvento definitivamente mentre sorpasso a destra il camion che svolta (per approvvigionare di formaggi molli un’industria locale di surgelati) e mi fiondo su un tratto pianeggiante, un vero labirinto rettilineo, dove supero i 110, al bisogno, cioè sempre, per recuperare qualcosa...

Gli Strokes sono dei cazzoni, intendiamoci. Uno scopettone da cesso è più simpatico, più umano, di Julian Casablancas, la cui presunzione e il cui narcisismo (cosmico) possono indurre ilarità, o, al massimo, rassegnazione filosofica. Se la sua ispirazione più vera fosse fare il nano da giardino, solo allora, sarebbe grandioso. I bagni d’umiltà dotano di virtù.

Però The Adults Are Talking rimpalla, volteggia nell’abitacolo, tratteggia quel rock gagliardo di cui fa una specie di bignami, con la prima chitarra poco affilata ma che gracchia sottilmente inseguendo una dentellata melodia e scambiandosi i timbri con la seconda chitarra che gorgheggia, che poi, chissà per quale motivo, si rincorrono sui chiasmi vintage del synth, beccheggiandosi scaltramente; il basso intanto zompetta pulsando col cuore di un passerotto grasso, mentre le percussioni si appuntano schematismi trascendentali. Questo fare, un po' opportunista, cioè un po’ in gamba e un po’ da culo, ha la stessa malcelata vivacità di un ragazzaccio che scalcia, che si finge ribelle, ma è solo iperattivo e ipovedente. Ma questa è la forza del “Nuovo Anormale”: riuscire a emergere – a volte - da evidenti forzature.

Quel sound, per quanto misurato, è smanioso. Sembra libero, appunto, nei momenti migliori. Julian si applica al canto e canticchia senza doti particolari e senza certezze, tranne quella che, se fosse un pesce, sarebbe uno scazzone. Ma quando urla vocali senza troppo senso, in momenti rapsodici, è liberante. Aggiunge un pizzico di acume a un malessere esistenziale proprio spurio, simulato più che presunto, assiomatico più che vissuto, in tutto riconducibile al mero egocentrismo; ma l’imberbe, alla fine, cerca rifugio proprio da se stesso. Così il giochino funziona. Perché? Sarà la band che veramente lo toglie d'impaccio. Credo sia questo. Quelli si sbattono. I vari Albert Hammond Jr. (chitarra), Nick Valensi (chitarra), Fabrizio Moretti (batteria) e Nikolai Fraiture (basso), degli autentici nerd, perennemente contesi tra i nervi tesi e le palle piene, fanno il loro dovere, moderando le idiosincrasie del loro frontman, il cui genio peraltro è ancora ben chiuso nella lampada e comunque pare destinato a mostrarsi istrionico. La somma delle parti, nel loro caso, dà un risultato sbagliato. E questa imperfezione, o se volete minorità, li fa funzionare benissimo. Così io, episodicamente, con “The New Abnormal” godo come un riccio (notoriamente l'animale più punk, in coppia col lama).

A proposito. Ho visto degli asini da queste parti, salendo a piedi verso alcune isolate borgate, che ti paiono roba d'altri tempi (poi la gente magari è lì in casa che si stropiccia l'iride sulla libertà che chiama Netflix). Beh, per quei pezzi d'asino non c'è bisogno di Casablancas e soci. Parlo dei somari veri. Loro hanno una vista sulla vallata che è mozzafiato (tra parentesi, se quassù vivono bambini, sono Heidi e Peter!). Ma per tutti gli altri ciuchi onorari, come me, che aspirano ad avere la pelle d’oca ed un cuore di manzo, ci sono quei bulletti degli Strokes. Dopo vent’anni - per carità, lo dico a titolo personale - sono quelli che rimangono, a differenza di White Stripes, Artic Monkeys, Libertines, Franz Ferdinand, The Killers; salvo solo Yeah Yeah Yeahs, in parte, e The Kills, in toto. Gli Struccoli possono avere una funzione. Sono un propellente a volte; sono l'idrolitina in mezzo bicchiere d'acqua beige d’acquedotto - parente di acquemammolo e acquepisolo; sono un accento marrone chiaro sulle parole “metà prezzo”, un trait d'union per passare a qualcos'altro, l'idea in sé dell'attesa (che ti fa un tantino esuberante). Qualcosa che può anche non andare storto. La strana salmodia che presumo recitino idilliacamente...

Mamma, guarda che sto per rimettermi a lavorare, ho passato i 40 anni e ho un impiego a tempo determinato, il meglio che ho potuto. Mamma, guarda che sto facendo un album rock, ma non è per farti male. Mamma, papà, ma è rock o la sua proiezione ortogonale?

Sì, mi piacciono molte faccine che vedo al venerdì, più di una, ma una, poi, anche parecchio, e, per fortuna, di Casablancas, invece, sento solo la voce, di sottofondo, che squittisce anche quando non è più che un ronzio falsettista in lontananza. Dopo aver sbrigato un po’ di lavoro, mi posso mettere le cuffie del lettore mp3, quello che mi accompagna ogni notte tra le braccia di Morfeo, ma con Gino Paoli per salire sul monte (a vedere gli asini), per scendere (a veder le stelle) van bene di nuovo gli Struccoli. C'è un gran profumo d'alberi. E specificamente di legno, dove li stanno tagliando... Cosa penserà Gino Paoli degli Strucchi? Non gli piacerebbero affatto. Ed Eraclito, degli Strokes? Che solo nei cambiamenti pop hanno uno scopo?

Bad Decisions è la parodia di My Generation, lo sento. Quando storpia il ritornello e invece di dire “Making bad decisions” dice “M kin bdddeci-sio”, incespica sulle sillabe, balbetta. A questa generazione di balbuzienti non sarà affidato il compito di liberare dalla schiavitù in Egitto, forse. O forse sì? E se dietro gli Strokes ci fosse l'impegno civile? Non diciamo cazzate... Porca puttana, un ethos negli Strokes? Questa generazione non passa il Mar Rosso, né il Rubicone. Non salta neanche un fosso. Millennials? Ma che cavolo, devo già scendere, scendere, tornare a lavorare, guadagnarmi il frico quotidiano; tenetemi almeno lontano da Gino (“Se fossi un sorriso aprirei la tua bocca/ se fossi un sogno abiterei il tuo sonno”, Cristosanto, dovevi proprio scrivere questa roba! Come si fanno a trovare parole così concrete e sublimi per descrivere queste cose?); aiuto Strucchi, soccorretemi Struccoli (beh, la gubana buona è quella gigante!). Mi servono gli Strokes! Ecco!


È un peccato che le canzoni di questo albume non siano tutte sangue che gonfia le vene, ribollendo così tanto che, poi, ti devi fermare un po’ ad aspettare la tua anima. E alcune sembrano proprio le uova uscite dal culo di un’altra gallina (tipo il produttore Rick Rubin). Ma, sembra dire Julian Casablancas, siamo solo quarantenni/uomini che si piangono addosso o rimpiangono le cipolle. Per intanto. Ma almeno cerchiamo di avere l’aria di quello che, con la sua acqua muschiata sulle guance, non deve chiedere... Insomma anche Leonard Cohen scriveva per le ragazze! E, certo, anche Ginone. Sì, sì.

Mica male quello zigzagare chitarristico, dai. Bastava un passo per essere oltre. Ci mancava poco per fare un grande album, ma chissenefrega! Basta tornare al primo per quello, a quel lavoretto coi fiocchi di Buddy Holly+Ramones+Television liofilizzati, spirito garage, rock’n’roll e new wave/post punk revival che inebria, intontisce e inebetisce con slancio e sciatteria. O prendiamo quel singolozzo definitivo, delirante, occasionalmente antiborghese e pruriginosamente cinico a nome One Way Trigger... Ma anche questo nuovo lavoretto dei cinque, o perlomeno quattro, musicisti non del tutto sclerotizzati, non è da buttare; se l’etica, poi, è circoscrivibile alle fisse per la propria squadra di baseball, beh, sono intoccabili. Al momento opportuno si possono sfoderare gli Strokes del 2020, prima di cadere in un burrone. Infondo, “I Colpi”, che non sono chiaramente i “Lo Scontro”, non si prendono più troppo sul serio; e come potrebbero? Sanno che possono andare a vuoto. E questo li salva e li promuove. Perlomeno di venerdì.

Oh, making bad decisions

Uh-oh, making bad decisions

I'm making bad decisions for you

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