Non è ancora ben chiaro cosa volessero suonare esattamente i Wolfgang Press.
La loro musica era una miscela di elementi apparentemente tra loro incompatibili, filtrati da una sensibilità che ha qualcosa di psicanalitico. Gospel, industrial, folk, synth-pop, e persino reggae, si amalgamano in una miscela irresistibile.
Il gruppo ha avuto una carriera abbastanza frammentata, e non ha mai trovato la forza (o forse la voglia) di concentrarsi con attenzione su un disco. Ecco, forse se avessero avuto questa lungimiranza, avrebbero potuto sfornare un capolavoro, e non solo ottimi album. Resta il fatto però che la loro parabola rimane una delle più innovative ed originali del decennio, esempio di vera sperimentazione, e non di banale copia-incolla di influenze alla moda.
La mente del gruppo era il cantante e bassista Marc Allen, coadiuvato dalle tastiere di Mark Cox e dalla batteria di Andrew Gray.

"Bird Wood Cage" è il loro secondo LP, dato alle stampe nel 1988.
E' un disco inquieto, straniante, provocatorio.
I ritmi sono spesso al limite del ballabile, come nell' iniziale "King Of Soul", un brano che suona come una dichiarazione d'intenti. Un'atmosfera cupa e spettrale, aleggia su un coro gospel femminile, una percussione techno-industrial al rallenty, ed un'elettronica ammaliatrice, che con le sue nebulose intermittenti regala quel tono sinistro che segna un pò tutto il disco.
"Raintime" si snoda su un'altra insolita architettura. Percussioni afro-sintetiche e un violino incantatore da stregone del deserto, ricamano la scena per le declamazioni teatrali di Allen, che qui pare un Brian Ferry dei diseredati.
La sirena che fa capolino sul poderoso rombo di basso che segna "Bottom Drawer", non promette nulla di buono. Ed infatti questo è uno dei brani più surreali, un viaggio in un incubo allucinato, fatto di rifiuti notturni e di anime marce, una passeggiata nella mente deviata di Allen.
La grande differenza la fa il carattere subliminale della loro sensibilità dark, il fatto di non ostentare nulla. Anzi, sembra che i Wolfagang Press cerchino proprio una forma sottile e penetrante per descrivere il dolore, la paura, l'ossessione.
Nel triblismo di "Kansas" pare di sentire dei Talking Heads aggiornati all'era della nascente (all'epoca) techno-house, mentre nel delirio pseudo-latineggiante di "See My Wife" sembra di ascoltare la versione malata del percussionismo di Arto Lindsay periodo Ambitious Lovers.
Per non parlare del fascino indefinibile delle folate ambient sintetiche presenti in "Swing Like A Baby", dove un ritmo da pressa meccanica fa immaginare dei Nine Inch Nails con meno rabbia e in piena overdose di eroina.
La recita grottesca di "The Holey Man" è così caricaturale nel suo prendere in giro le pose del dark-punk, che non spaventerebbe nemmeno un bambino. Il brano è uno dei più surreali del lotto e dimostra una creatività ed un'intelligenza che probabilmente mancavano a tanti gruppi più acclamati.
La fisarmonica reggae di "Hang On Me" è un buffo omaggio ai films d'orrore di serie B, col suo finale in preda ad allucinazioni di tastiere autistiche, un'altra sottile presa in giro verso chi si prendeva troppo sul serio. Questa capacità "vignettistica" della loro musica, è come un sorriso sardonico, un beffardo scherzo sadico che terrorizza davvero. Come dire, qui c'è molta più "sostanza" che "forma".
Il disco si chiude con l'incubo più rumoroso di tutti, "Shut That Door", una danza indemoniata tra strilli e vagiti, incalzata da una sezione ritmica di rock "duro e puro". Che sia un'altra gag nascosta?

Insomma, chi ama gli esperimenti intelligenti non si può esimere dall'ascoltare questo disco. Un angolino nascosto nel gigantesco edificio del rock.

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