Da un pò mi proponevo di cimentarmi nella recensione di un disco a cui appioppare un bel 2, o peggio ancora un 3. Pensavo con sconforto ad un Tortoise di quelli scarsi. Ci vuole abnegazione a recensire un "3", nè dolore nè estasi, solo mettere in fila le parole a descrivere un'esperienza musicale che ci ha procurato un'emozione media.
Nel medio di tali considerazioni, la mia web radio favorita mi sputa fuori familiari aggregazioni di note, di quelle che dici: "Ma io questa la so!", e ti sale la fibrillazione finchè non ti risale alla mente il pezzo in questione. Dopo alcuni secondi di smarrimento mi soccorre l'ingresso di una voce selvatica. L'arcano è svelato, è "Sunday Evening" quella che sto ascoltando, le emozioni medie cedono ancora il passo all'urgenza recensoria del capolavoro.
Josef Zawinul, Joe per gli amici, mi ha sempre suscitato immensa curiosità. Un ometto austriaco con baffetto da grappino-addicted, passato al Conservatorio di Vienna e migrato alla Terra Promessa a dialogare con i migliori, armato con ingombrante e poco consueto bastimento carico di tastiere. E pare che ci faccia grandi cose, c'è chi dice sia stato l'unico europeo a significare qualcosa di determinante per il jazz in toto (chi volle Miles Davis a giocare coi synth quando decise di rivoluzionare il sistema con "Bitches Brew"?). Mi pare esserci in Zawinul qualcosa di bizzarro e di geniale, una cornucopia che da mezzo secolo regala suoni di passione, maledettamente ispirati, gioiosamente esposti a qualsivoglia contaminazione.
Un ART-igiano, un poeta, un proletario, un sovversivo. Quelle gare con Jaco a chi beveva di più senza crollare, pare che Josef fosse imbattibile, la devozione a quel tappeto di tasti bianchi e neri, la scioltezza assoluta nel collouqio con le voci più illustri e avanguardistiche del jazz nero, lui, con quel baffetto alpino, avrei voluto conoscerlo Josef, davvero, o almeno vederlo suonare da vicino.
Joe Zawinul aveva 65 anni, e alle spalle tutto ciò che sappiamo, quando partì in tour con la formazione che egli stesso definì la migliore che avesse creato dai tempi del Bollettino Meteorologico. "World Tour", nomen omen, è anzitutto crogiolo, assemblaggio di carni ed ossa da ogni dove. Victor Bailey e Manolo Badrena sono due fidi scudieri di Zawinul, attorno al sublime groove del loro bass & drum si dipana l'Arca di Joe, comprensiva dell'eclettico newyorkese Gary Poulson alla chitarra, Richard Bona from Cameroon, raffinatissimo basso addizionale, e Paco Sery, ivoriano, sensazionale vocalista e furente percussore di pelli, la rivelazione.
E poi il Viennese ad officiare. Il disco aggrega tre esibizioni in terra di Teutonia, restituendo l'intima natura degli episodi concertistici di Joe Zawinul, notoriamente riconosciuto come uno dei più incendiari jazz live performers. È musica questa qui, cosmopolita e polimorfa, musica viscerale, che gorgoglia nello stomaco prima di essere vomitata in forma d'onde sonore.
È musica maleducata e prepotente, de-generata e screanzata. La polipercussione spadroneggia in lungo e in largo, invade la scena e mette al bando i convenevoli: i suoni arrivano dritti allo stomaco, bypassando la razionalità. Ne sanno qualcosa anche quelle linee di basso speleologiche, che ispezionano e frugano nell'intimo alla ricerca della profondità, del suono vero, come nell'inebriante "Two Lines". In tal verso la perizia di Bailey emerge in tutto il suo fulgore, la complicità con le ardite peregrinazioni dell'austriaco fa venir voglia di brindare al jazz, come concetto. E mi sovviene qui "Slivovitz Trail", traccia illuminata, dove il trio Bailey-Badrena-Zawinul recupera il più ispirato Weather Report feeling per dar luogo ad una baraonda su cui si innesta l'impeto di Sery.
Una voce primigenia, da scimmia kubrickiana, rigorosamente non convenzionale, nuda, spogliata dell'evoluzione. Il rigore compositivo di Zawinul è meravigliosamente prodigo nel concedere ai musicisti lo spazio vitale necessario a scaricare le proprie pulsioni, così che "World Tour" risulta essere architettura gitana, gaio carrozzone che per il mondo cammina, sberleffo all'inerzia e alla de-pressione.
"World Tour" sta a dirci come si gira il mondo, il mondo interiore. Girare come percorrere, girare come cambiare. La chiave è nell'improvvisazione, unica reale modalità di conoscenza, e nella visceralità, unica reale modalità espressiva. Ma questo è quello che pare suggerirmi un omino col baffo dalla dubbia moralità, potrò fidarmi ?
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