Chopin é nero , indossa buffi cappelli e suona per concessione divina.
Nel farlo disseziona la notte con una lanterna magica: da una parte l’ombra, dall’altra la luce. Poi ricuce il tutto a comporre una sorta di ying yang musicale dove armonia e dissonanza finiscono per essere una cosa sola.
Non immaginatevi, però, chissà che. Anzi immaginatevi una cosa da niente. Talmente da niente che, ad ascoltarla oggi, vien quasi da chiedersi: “ma siamo in un luna park o in un locale notturno?”
Suoni infantili e squillanti (di uno squillare che non si da importanza) cedono il passo all’ombra, un’ombra tutta fatta d’angoli e spigoli. ( Lo ying e yang che dicevamo).
Magie infinite (e tutte intrise della bellezza delle cose piccole e luminose) brillano per un attimo, ma, siccome è tutto un susseguirsi, in realtà brillano sempre. (La lanterna magica che dicevamo).
Aggiungete una specie di scienza delle pause, il non detto e il vuoto che accentuano il successivo pieno e fan sì che certi suoni guizzino come pesciolini multicolori mentre altri si caricano d’ombra e di profondità.
E poi una sorta di grazia zoppicante, un’incertezza tutta umana nella luce.
A me il nostro Chopin nero piace quando suona da solo, come in questo disco.
Che, quando suona con altri, i brani perdono quel meraviglioso incanto fatto di laconicità e di apparente andare a vuoto. Meglio, molto meglio, il solitario viandante che procede zigzagando per sentieri e strade blu.
Ok, il nostro Chopin nero non è Chopin. Si chiama, anzi si chiamava Thelonious Monk, indossava buffi cappelli e suonava per concessione divina. Solo che le concessioni divine spesso si pagano.
Ma sto pezzo della recensione non ho voglia di scriverlo. Non ho voglia di scrivere di Monk il pazzo, di Monk l’eccentrico, di Monk il catatonico, un accenno basta e avanza,
Diciamo solo che Monk era uno che pensava diverso e che quindi suonava diverso. Diciamo che per me Monk era (ed è) Chopin...
Trallallà...
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