E' mai possibile che ogni qual volta che ci accingiamo all'ascolto un album post-rock si debba ricadere necessariamente nella solita disputa riguardante le sorti di un genere che per definizione dovrebbe continuamente sporgersi in avanti lasciandosi dietro ogni cristallizzazione manieristica, ed invece fa sistematicamente il contrario?
Direi invece che è l'ora di rassegnarsi ed iniziare a guardare al post-rock come ad un movimento che, al pari del punk, ha rappresentato un momento di indubbia rottura nella storia della musica rock, per poi istituzionalizzarsi, consolidarsi nei propri cliché e scoprire piuttosto la sua immortalità nella capacità di infiltrarsi altrove e contaminare altri mondi musicali, dal jazz all'elettronica, passando per l'hardcore ed il metal.
E' difficile, lo capisco, e ci vuole tutta la classe e la “straordinarierà” di un gruppo come i Mogwai per mantenere negli anni la propria credibilità, sopravvivere ed uscire (quasi) indenni al fuoco incrociato di una critica sempre più snob e di un pubblico sempre più esigente. Cosa dire quindi di una band come i This Will Destroy You, che si affacciano sul mercato discografico nel 2006 con l'EP “Young Mountain”, fuori tempo massimo direi, in anni in cui al movimento era rimasto ben poco da dire di nuovo, in anni in cui i gruppi della prima ondata sembravano aver già dato tutto in termini di innovazione, mentre il resto della scena pareva inseguirli stancamente, incapace di bissarne i fasti né tanto meno di darne un seguito credibile.
Ma se il post-rock nella sua forma più tradizionale (mio dio che ossimoro!) pare spegnersi lentamente anno dopo anno, è anche vero che il suo linguaggio sopravvive percorrendo lidi al di fuori dei confini più strettamente indie, donando nuova vitalità, aprendo nuove vie evolutive a generi che nel frattempo appaiono ancora più gravemente impantanati nella paludi dell'immobilismo stilistico.
La forza dei This Will Destroy You sta allora proprio nel tracciare un personale solco evolutivo e riuscire ad aprirsi un valico impervio a metà strada fra il post-rock e quel mondo che proprio lo stesso post-rock è andato nel tempo a contaminare.
Oggi, con “Tunnel Blanket”, il quartetto texano (capitanato dai chitarristi Chris King e Geremy Galindo e completato da un focalizzatissimo Alex Bhore, nuovo ingresso dietro alle pelli, e dal fondamentale Donovan Jones, che si divide fra basso e tastiere, contribuendo non poco all'economia del nuovo sound) prosegue con perseveranza il suo cammino di definizione stilistica, prendendo la rincorsa dall'album omonimo del 2008 (seguito poi da altri due lavori brevi – lo split con i Lymbyc Systym “Field Studies” del 2009 e il recente EP “Moving on the Edge of Things”), ma alzando di un palmo l'asticella, confezionando un album maturo, ragionato, che sa avvalersi di un impiego misurato della componente elettronica e degli innesti mai invadenti di un ensemble da camera, e che perfino osa varcare i limiti della temibile drone-music, ma senza perdere né quell'impatto fisico che dalle origini caratterizza la band, né l'indubbia capacità di generare vivide visioni e procurare forti emozioni nell'ascoltatore meno severo e meglio disposto ad abbandonarsi ad un ascolto scevro da pregiudizi ed orientato alla sostanza delle cose.
"Tunnel Blanket”, pur salvaguardando un metodo di scrittura che pone ancora una volta il suo fulcro nell'alternarsi fra pieni e vuoti, sceglie pertanto di percorrere la via dell'estremizzazione degli elementi, calcando la mano nei momenti “pesanti” e raffinando quelli “leggeri”, edificando così un monumento sonoro che riesce a far convivere ambient d'autore e post-metal. E questo grazie all'innegabile professionalità guadagnata con il tempo, ad una grande chiarezza d'intenti e all'umiltà di chi sa che la sfida che si gli para di fronte è ardua: un album oscuro questo “Tunnel Blanket”, a tratti tetro e minaccioso, lontano anni luce da reminiscenze indie o languide progressioni di un'emotività relegabile ad un universo strettamente adolescenziale. In esso convivono armoniosamente Sigur Ros e Neurosis, dilatazioni e deflagrazioni; musica cosmica e field recording da un lato, sludge ed esplosioni chitarristiche di una pesantezza inusitata dall'altro.
Mi piace, del resto, questa nuova America che sa rispolverare un'emotività che sembrava sopita e che oggi riemerge prepotentemente dai gangli di uno spigoloso pragmatismo che da sempre caratterizza (almeno in ambito rock e metal) queste terre di bifolchi mandriani. I This Will Destroy centrano pertanto il bersaglio, con pazienza certosina, graffiando laddove necessario, ma sostanzialmente abbandonandosi ad una musica contemplativa, fresca, colta a tratti, sicuramente confezionata divinamente, in cui i subbugli dell'interiorità vanno a confluire nei lenti movimenti di una natura cieca e bellissima, spietata quanto generosa, in altre parole: al di fuori di ogni connotazione etica e morale. Poiché qua bellezza e degrado, disperazione e vitalità convivono nell'equilibrio di forze che si contrastano ma che al contempo si completano. Tanto per usare una frase banale: niente si distrugge, niente si crea, tutto si trasforma. Ma in questo non mi riferisco solamente al linguaggio musicale adottato (riuscito mix di elementi), ma anche al “modus evolvendi” dell'album stesso, brulicante nel suo impercettibile procedere.
Prendete per esempio i dodici minuti di “Little Smoke”, che ha l'onore di aprire l'album: si parte in punta di piedi, fra suoni impalpabili e rarefatti ed arpeggi impercettibili che si intrecciano a bassi profondi, per poi procedere per successive stratificazioni, prima e successivamente il “crack” che spezza a metà il brano, una valanga che dopo pochi minuti di quiete frana nervosamente sull'ascoltatore sospendendolo attonito in una tragica caduta, come se si trovasse spettatore ed attore nel silenzioso scivolare di enormi lastroni di pietra che smottano lungo il versante scosceso di montagne titaniche in mari altrettanto profondi. Nel putiferio che costituisce il corpus centrale del brano pare infine di udire grida “umane”, unico appiglio vocale di un album assolutamente strumentale, qualcosa che mi ricorda molto da vicino il primo lavoro degli ineguagliabili Kayo Dot, oppure i Mono di “Are You There?”. E proprio i Mono, la loro forza panica, ancestrale, epica, il loro sguardo impotente innanzi ad una natura sovrana da temere ed idolatrare, sono continuamente richiamati lungo questa ora di ottima musica, ed in particolare nella terza traccia “Communal Blood”, scelta anche come singolo apri-pista, che sa coinvolgere nonostante il suo crescere non conduca ad alcunché di eclatante (ma del resto si sa, ormai il post-rock non sa offrire altro che crescendo o falsi crescendo).
Per poter assaporare nuovamente la violenza che aveva assalito il primo brano, bisognerà attendere tuttavia la penultima traccia “Black Dunes”, a dimostrazione di come la band sia refrattaria nel concedersi soluzioni di facile presa: un'apertura degna dei Pink Floyd più evocativi (quelli di “Echoes” per intendersi), e poi lo scricchiolio che conduce al collasso definitivo. Se certo i texani si confermano maestri indiscussi nell'edificazione di incredibili muri di suono, è bene ricordare che in questo “Tunnel Blanket” i Nostri preferiscano concentrarsi su una ricerca sonora che vede come priorità l'equalizzazione dei suoni, lo studio delle armonizzazioni, la sovrapposizione incrementale, la cura del dettaglio.
Ne consegue che “Tunnel Blunket” finisce per soffrire un poco nella sua parte centrale, porzione di album che va ad appesantire un'esperienza musicale che può essere tacciata, se l'orecchio è disattento, di prolissità, ridondanza, eccessiva auto-indulgenza o leziosità formale: un ribollire magmatico in cui la band ama procedere senza fretta ed edificare scenari straordinari degni di una tacita (ed impotente) contemplazione.
E' quindi l'indole ambientale, la predisposizione ad una sofferta implosione, è lo sguardo trasognato innanzi ad un mondo che non possiamo dominare che prevalgono in questo album che erge il capo in un anno, il 2011, che segna una distanza di quasi quindici tacche dall'uscita di un'opera seminale per il genere quale era stata “Young Team” e che oggi rimane ineguagliata quale ideal-tipo dell'intero genere: in questo contesto, i This Will Destroy You sanno guardare con dignità l'involversi del panorama musicale a loro circostante, scegliendo la via più ostica, non cadendo in tentazioni e mostrandosi rigorosi, severi e poco inclini a concedere facili emozioni (come spesso capita all'interno del genere), regalandoci infine un album che sa farsi apprezzare pienamente solo dopo numerosi ascolti.
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Di Jam
Questo disco è la catarsi.
Un pezzo che ti spinge ad alzare il volume delle cuffie fino a farti sanguinare le orecchie.