Dopo due anni di temporaneo scioglimento e conseguenti tre stagioni di assenza dal mercato discografico, gli albionici Thunder sciorinavano con questo loro sesto album datato 2002 un'indubbio stato di forma e vitalità. "Shooting at the Sun" è uno dei loro migliori lavori, ricolmo di quel rock blues settantiano sapido e corposo, scevro di lungaggini ed esibizionismi virtuosi ed attento invece a creare vere canzoni, melodicamente compiute e strumentalmente equilibrate, spumeggianti e trascinanti.

Il disco inizia senza infamia e senza lode con la rocciosa "Loser": il riffone all'unisono delle due chitarre e del basso fa il suo dovere, ma le note toccate dal cantato sono stereotipate, anche riciclate da precedenti occasioni. Già molto meglio la seconda traccia "Everybody's Laughing", la quale innesta la sempre efficace pur se blanda componente funky, beninteso nel lavoro delle chitarre giacché il batterista Harry James procede imperterrito a pestare come un disgraziato, ficcando anche questa canzone in quell'ottimo limbo di hard ballabile ed estremamente accattivante (almeno per chi, come me, stravede per queste alchimie sonore).

"If I Can't Feel Love" è la prima ballata: lo stile a tutto braccio sulla chitarra acustica, prediletto dal chitarrista e compositore della formazione Luke Morley quando scrive e arrangia con questo strumento, rifulge ancora una volta e crea dinamiche di scuola Led Zeppelin, coi quattro colleghi che improvvisamente intervengono in forze, seppellendo la sferragliante Guild di Morley, per poi manlevarsi facendola riaffiorare dalla tempesta elettrica. Il risultato è di grande dinamicità e gusto.

Ma la raccolta di canzoni prende veramente quota con il quarto episodio, quello che dà il titolo all'album ed espone i Thunder più tipici, quelli al 33% hard, per un altro 33% blues e per l'ultimo 33% funky. Bello anche l'assolo di chitarra, stavolta, oltreché breve e funzionale come sempre, con un particolare suono appiccicoso ed insinuante della Les Paul bianca del mancino solista.

"The Pimp and the Whore" subito a seguire ha pure un bel testo, ironicamente amaro su certe amorali scalate al successo, condite di arrivismi e prostituzioni varie (abitudini notoriamente in gran voga anche da noi). "Abbiamo bisogno l'uno dell'altro come un pappone e il suo bordello..." raglia magnificamente l'eccezionale cantante Danny Bowes, sopra un nugolo di begli accordi ribattuti di pianoforte.

La successiva " A Lover, Not a Friend" crea all'istante un'atmosfera drammatica grazie a un semplice arpeggio in minore, capace di dare tensione e pathos accompagnando al meglio le liriche dedicate alle tipiche riflessioni che assalgono chi subisce un abbandono sentimentale. La qualità del songwriting non scende di certo neanche nell'episodio successivo "Shake the Tree", nuovamente in odore Zeppeliniano con la tessitura virile della chitarra acustica sottoposta al bombardamento impietoso del riff iper elettrico durante il lungo ponte centrale.

"Somebody Get Me a Spin Doctor" è una party song come tante altre del gruppo, allegra e diretta, onesta e ben fatta, grintosa e bollente. Sorprendente invece, poiché parecchio al di fuori del sound tipico della formazione, è la successiva "The Man Inside", con le chitarre elettriche che per una volta rinunciano all'attacco nudo e diretto e si fanno imbellettare da flanger, leslie ed effettini vari. L'assolo mellifuo sarebbe piaciuto a George Harrison e...insomma, Thunder going pop, per una volta (o quasi, visto che un timbro di voce così blues come quello del buon Bowes rende qualsiasi melodia, anche la più ruffiana, virile e raccolta).

La pausa di alleggerimento dura poco e il prediletto rock blues cadenzato e incendiario torna subito con "Out of My Head", scandita dal campanaccio di James che batte i quarti. Stupenda poi la melodia della traccia finale "Blowin' Away", capace di trasmettere immediata sensazione di ricovero, così americaneggiante e rilassata, quasi da country rock californiano... se non fosse che dopo due minuti entra un poderoso e polveroso riffone, con Bowes che immediatamente passa all'ottava sopra e prende a ruggire come una belva! Volevo ben dire..., ma è solo un inciso, il brano riprende di nuovo a dondolare la sua bella melodia, inerpicandosi nuovamente nei familiari territori hard rock solo per l'assolo in uscita, fornendo ottimo epilogo al disco se si soprassiede a quel paio di bonus tracks dal vivo, messe lì ad allungare (inutilmente, a mio parere) la scaletta.

Brutta, a ben vedere, questa diffusa abitudine di aggiungere tracce dal vivo nei ciddì di materiale registrato in studio. E' vero che portano interessanti esempi della resa di una formazione sul palco e sfruttano maggiormente la capacità di memoria di un dischetto, ma questo a spese di una dispersione della compattezza di un album.

Alla prossima con i Thunder, grande quintetto albionico di rock blues con le palle.


  • Geo@Geo
    3 lug 11
    Recensione: Opera:
    Scrivi, scrivi sui Thunder:) e pure su altri gruppi del genere!

Ocio che non hai mica acceduto al DeBasio!

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