L'adolescenza, come disse una volta la mia amica Roberta Perandini, è il periodo delle nostre vite in cui siamo tutti più brutti e goffi. Molti, a partire dall'orrendo titolo italiano, potrebbero credere che "Fuga dalla Scuola Media", parli delle bischerate di un gruppo di ragazzini post-moderni, viziati e pasticcioni. Vi sbagliate di grosso.

"Fuga dalla Scuola Media" di Todd Solondz,  è una angosciante commedia suburbana che ha come protagonista un'undicenne, Dawn Wiener (una ottima Heather Matarazzo), seconda figlia di una famiglia ebrea che frequenta una scuola qualsiasi in una qualsiasi cittadina del New Jersey. Dawn è bruttina, porta occhiali spessi, vestiti orrendi e rimane perennemente a bocca semi-aperta, ferma in una espressione ebete e inespressiva. Per questo suo modo di essere diviene presto bersaglio dei suoi compagni di scuola e viene umiliata giorno dopo giorno nei modi più assurdi.

Dawn è veramente sola: è lasciata sola da un ambiente familiare squallido, una famiglia tutta assorta nel restauro della sua immagine piccolo-borghese, preoccupata a mantenere i contatti con la società-bene della piccola periferia, impegnata a dar buona immagine di sé tanto al vicino che fa il barbecue, quanto al preside della scuola. Una famiglia delle apparenze, come tante insomma. Stessa sorte anche nei corridoi e nelle aule della sua scuola: nessuno pare accorgersi della sua piccola sensibilità, nessuno. Ovunque si volti trova compagni e professori pronti a ricordarle la sua inadeguatezza, pronti a rimarcare il suo disagio. Il solo amico che gli rimane, se così si può definirlo, è il teppistello Brandon, un Eminem in miniatura che minaccia sempre di stuprarla, ma che in fondo non è poi così malvagio.

Lei, intanto, innamorata di un belloccio delle scuole superiori che la considera una "ritardata", indispettita dalla sorellina minore che si pavoneggia a principessina di casa e riceve tutte la premure di mamma e papà, con un fratello tanto genio quanto automa davanti al suo PC, ritiene che la vita sia essenzialmente dolorosa e priva di senso e presto comincia a chiedersi se la vita non possa essere migliore lontano dal New Jersey.

Insomma, questa di Solondz, è un'opera che nel bene e nel male ritrae una parte di noi e delle nostre vite, qualcuno, onestà sua, ci si ritroverà del tutto. E' una storia che risulta difficile a guardarsi, che trova ovunque motivi per non essere gradevole. E' un'opera per nulla cucinata, servita così al naturale. Talmente realistica e  veritiera da fare male alla vista, da essere intollerabile per i nostri occhi, sempre più abituati ai brodini e agli omogeneizzati hollywoodiani. Nessun ammiccamento, nulla da offrire al pubblico seduto in sala o in poltrona, solo uno sguardo obbligatorio sulla realtà che ci circonda. Ci troviamo di fronte ad un quadro tristemente moderno, privo di poesia. E' un film che fa riflettere, pone lo spettatore di fronte all'infelicità e alla crudeltà dell'adolescenza e lo fa rinunciando a scene ad effetto, senza cadere nel voluttuoso gioco del vedo e non vedo: la tensione, la rabbia, l'infelicità, sono narrate tramite una sottile indagine degli sguardi e dei silenzi, l'apatia e l'anomia sono le vere armi delle violenze della solitudine, della non-accettazione, che Dawn soffre sulla sua pelle.  Alla fine del film ciò che ci è rimasto è il dolore, quello vero. Il messaggio spietato di Solondz sembra voler sottolineare come oggi saremmo disposti a qualsiasi tipo di angheria pur di trovare qualcuno che ci apprezzi, o quantomeno ci consideri, per come siamo. E forse si potrebbe estendere il messaggio al di là delle storie individuali. Il regista, infatti, in ogni momento del film, sembra rimarcare che se Dawn è bruttina e un po' sfigata, la realtà che la contorna è assai peggiore, non è nemmeno degna di lei e della sua delicatezza.

Un film che sa graffiare senza muovere un unghia, un bel lavoro premiato al Sundance festival nel 1996 come miglior film: questo lavoro non ha aspirazioni velleitarie, il regista non sembra mai cadere nella tentazione di consegnarsi all'immortalità, né alla fama, pare umilmente concentrato sul proprio operare e sui suoi contenuti, dando dimostrazione, se ancora ce ne fosse bisogno, di come anche senza grandi mezzi economici ci si possa esprimere su alti livelli. Un lavoro, come questo, che riesce ad essere specchio del proprio tempo, serba in sé la qualità che da dignità d'Arte ad ogni opera che la comprenda.

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