GOOD EVENING

Il saluto più terrificante che si possa sentire. Questo il rantolo da orco ubriaco con cui Tom Waits, nel 1988, decide di interrompere i suoi primi quindici anni di dischi in studio con un "Grande Evento" come questo: un live con tutto il meglio del repertorio dei suoi anni '80 ("Franks Wild Years", "Swordfishtrombones", "Rain Dogs") riproposto con un'emozione e una partecipazione mai sentita prima. Sul palco si porta le sue storie migliori, i suoi musicisti occhialuti e vestiti come facchini indiani e la sua musica nata vecchia e fuori moda. Si appende all'asta del microfono, gioca con la lampada che vi è appesa, digrigna i denti beffardo, poi raglia, nitrisce, sbraita; insomma un vero e proprio animale da palcoscenico. Dà una nuova veste ai suoi brani, si sente ancora di più l'odore della musica popolare ("Rain Dogs"), delle marcette, degli organetti, ma anche dell'elettricità ("15 Shells From A 30.6", "Underground"), di mantra ripetitivi ed ipnotizzanti ("Red Shoes").

Come ogni circo che si rispetti, quello di Waits ha girovagato per mezzo mondo; così i pezzi che vengono fotografati in questo disco vengono un po' da tutti i posti che Tom ha avuto "a portata di scarpa": Dublino, Los Angeles, Stoccolma, Berlino: città che, per una notte, sono diventate gli scenari delle storie evocate dal Nostro. L'accolita di camaleonti che lo segue è una delle migliori che Waits abbia mai avuto: Marc Ribot alle chitarre, Hayward alla batteria, Clark al basso e a seguire una trafila di sitar, trombe, banjo, congas, bonghi, percussioni, sassoffoni, organetti, corni..come se un polveroso negozio di robivecchi prendesse vita e iniziasse a suonare.. E poi viene il piano, a dare quel non so che di traballante e alticcio e ad accompagnare le storielle, le battutacce, le introduzioni di Waits.

Già, perché in questi concerti è lui il primo a divertirsi: urla, incita il pubblico, ride e fa ridere, balla, saltella, recita e fa commuovere. Lo sa bene Tom che il fulcro della sua arte sta tutto lì, nei concerti, e allora non perde l'occasione di registrare tutto e di creare anche un film da quelle sue esibizioni. Il suo non è uno spettacolo convenzionale, è un cabaret, una rappresentazione scenica del suo estro e dei suoi personaggi; è un momento di incanto ed incredulità, e lui, col suo  consueto cappello grigio e i suoi coriandoli in tasca, è il leone, la scimmietta e il domatore allo stesso tempo.

Recentemente il "Daily Telegraph" lo ha definito: "the greatest entertainer on Planet Hearth"; diffido sempre dei superlativi assoluti, ma conosco Waits e la mia passione per lui e credo che sia davvero così: uno fra i migliori cantautori americani, un misterioso e affascinante musicista, ma soprattutto uno fra i più grandi circensi del ventesimo secolo. 

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