Arrivano al traguardo della decima prova in studio anche gli scozzesi Travis, ormai un istituzione del rock d’oltremanica ed un esempio di longevità artistica incontestabile ed invidiabile.

Pur con qualche passo falso (pochi, a dir la verità), i quattro di Glasgow sono arrivati a questo nuovo “L.A. Times”, secondo album consecutivo nel quale la penna è tornata saldamente tra le mani del frontman Fran Healy, fresco cinquantunenne. Registrato negli studi statunitensi di Skid Row e prodotto da un nome di grido come Tony Hoffer (in passato al lavoro con Beck, Phoenix e Suede), il nuovo album è composto da dieci brani che mirano a descrivere e sviscerare la vita quiotidiana in una metropoli come Los Angeles, città nella quale il buon Fran ha vissuto negli ultimi dieci anni.

Il nuovo lavoro è stato definito dallo stesso Healy come il più personale della band dai tempi del capolavoro “The Man Who”, il secondo album che li portò alla fama internazionale; oggi come allora, si sono mosse alcune “placche tettoniche” nella vita del frontman che hanno provocato una spietata e appronfondita autoanalisi a livello lirico paragonabile a quella già sviscerata nel disco del 1999.

A livello musicale, il lavoro si apre con un numero spiccatamente travisiano come “Bus”, già estratto come terzo singolo, per poi virare sul secondo singolo “Raze The Bar”, già più americano nei suoni (un beat in odor di black music costruito su di un piano battente) ed impreziosito dalla collaborazione con gli amici Brandon Flowers (The Killers) e Chris Martin (Coldplay). “Live It All Again” è una malinconicissima ballad acustica tipicamente alla Travis, interpretata con estrema delicatezza da Healy, il quale mood è improvvisamente interrotto dal british pop kinksiano dell’ovvio lead single “Gaslight”, tra fiati, cori e di nuovo piano.

Chi ha amato i Travis più affini al post britpop di inizio carriera, troverà pane per i propri denti tra le note di “Alive”, che si sarebbe inserita perfettamente in quel gran disco che fu “The Invisible Band” e suona come se fosse una lontana cugina di "Side", e la più sostenuta "Home”. “I Hope That You Spontaneously Combust” sorprende con le sue chitarre sospese tra Beck e Blur, prima che l’album torni a suoni più tradizionali con la lenta “Naked In New York City” (inizialmente creata durante una sessione di scrittura nel periodo di “The Man Who”, e si sente) e con il folk breve e tiratissimo della traccia promozionale “The River”.

Chiude l’ennesimo grande album la titletrack, addirittura rappata, a sancire l’ennesimo gran lavoro per una band che sembra davvero non esaurire mai il proprio talento nel cesellare melodie come se fossero fine e pregiato artigianato.

Brano migliore: Raze The Bar

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