I Triumph, esponenti di spicco di una scuola spesso sottovalutata o forse schiacciata dalla concorrenza statunitense, quella Canadese, assieme ai Rush rappresentano i picchi più alti nell'ambiente del rock duro e non del paese nordamericano. Attivi fin dalla prima metà degli anni '70, la loro mistura musicale consiste in un Hard Rock di facile impatto, nei primi album venato di progressive e di brani di puro e semplice AOR. In questo "Allied Forces", considerato il capolavoro della band, sono percepibili, oltre agli stili sopra elencati, influssi Heavy Metal e visto l'epoca, siamo nel 1981, non poteva essere altrimenti per formazioni che calcano questi generi.

La prima traccia "Fool For You Love" sintetizza quello fin qua detto attraverso l'uso di pesantissimi riff di chitarra, una voce limpida ed incisiva che alle volte assume toni più aspri, e sfocia nel refrain orecchiabile e melodico; da sottolineare anche l'eccellente assolo di Emmett. Altra song che raccoglie i dogmi del gruppo, fondendoli tra di loro creando un trascinante effetto di spensieratezza, è "Magic Power", la hit del disco, in essa coesistono attraverso continui saliscendi melodici il pop raffinato iniziale condotto tra voce e corde, rivisitato poi in chiave più pesante mediante l'uso della chiatarra elettrica nel ritornello, il quale sarà la chiave di lettura di un brano che nella sua parte conclusiva fotografa un AOR scanzonato di facile appeal commerciale, forse l'unico errore dell'album, ma d'altronde se il loro intento era quello di inserire un pezzo per scalare le classifiche, ci sono riusciti in modo più che discreto. Tralasciando "Air Raid" un minuto e quindici secondi abbastanza inutili in cui si vuole imitare i raid aerei, si giunge ad "Allied Forces" la title track. Il suono muta completamente, ci si trova di fronte ad una cavalcata di puro Hard Rock stile seventies con colorazioni più che evidenti Heavy Metal, special modo nel finale, ammaliante, magico, contorto, raccapricciante l'assolo centrale di Emmet, che stende il tappeto rosso per l'ultimo spaventoso, confusionale minuto. I suoni aumentano la loro gradazione, la loro potenza, tutto sembra cadere in un vortice di follia, prima contenuta, poi sempre più estrema, invadente che esplode negli schizofrenici urli di Moore, anch'esso pervaso dalla pazzia fonica. Track straordinaria, sfaccettata, si passa dall'irriverenza del vocalist celata in acuti ed urli come in parti più tranquille, ai virtuosismi incommensurabili di Emmett, tutto sospeso sul sottile filo che separa il confine tra Hard Rock ed Heavy Metal. Fondamentale per la comprensione del disco, ma soprattutto del gruppo è anche "Hot Time (In This City Tonight)". In questa canzone più che in nessuna altra all'interno dell'opera si rivisita l'argomento del perenne conflitto tra i due generi sopra elencati, se in alcuni frangenti (la parte cantata), l'ago della bilancia pende verso l'Heavy, in altri (gli assoli) v'è tutta l'anima Hard, tuttavia al di la di questi (inutili) confini stilistici, il brano è articolato davvero egregiamente con un drumming perenne a sostegno della voce, che lascia spazio a virtuosismi vari che impreziosiscono con un tocco di magia il componimento. Arrivati a questo punto ci si stagliano davanti due particolari semi-suite, la prima "Fight The Good Fight" verte essenzialmente su un leggero Hard Rock, talvolta pregno di atmosfere malinconiche determinate dalle decise suppliche di Moore e dall'assolo di Emmet che infonde pathos conferendo al brano un importante valenza all'interno del disco.
La seconda "Ordinary Man", sette minuti e 20, è da suddividere in due sezioni del tutto distinte, i primi 3 minuti fotografano una raffinata ballata introdotta da un armonico coretto e condotta attraverso il binomio voce-chitarra acustica in un clima fatato, quasi lirico. Dopo i 3 minuti i riff si accendono disegnando un suono pesante e duettando a braccetto con la batteria di Levine, la parte cantata a tratti si contorce, graffia, ma cerca sempre di mantenere, pur alzando massicciamente i decibel, lo stile lirico iniziale, essenzialmente durante il refrain. Immancabili, infine, le scale dell'assolo di Emmet. Una track strepitosa, tutti i componenti del trio danno il meglio di loro e scaturisce, senza dubbio, il capolavoro dell'album. Si chiude con "Petite Etude", un minuto e 15 secondi di ammaliante arpeggio della chitarra e "Say Good Bye", aor, per salutare una grande, ma poco conosciuta, opera.

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