Addio, Dragon Inn.

Il cinema, il vecchio cinema è morto e questo film è la marcia funebre in suo onore: statico quanto intrigante, tedioso quanto avvilente. Forse il più lento che abbia mai visto - ma che dico? Immobile, al punto di far perdere il contatto con la realtà e la cognizione del tempo; per gli spettatori più impazienti invece sarà l'esatto opposto, e le occhiate all'orologio scandiranno i minuti.

È una parata silenziosa di individui spettrali che vagano, si incrociano, addirittura si sfiorano sotto l'occhio di una cinepresa irremovibile, senza che si lasci trapelare (almeno in superficie) ironia o dramma, senza che nulla si risolva in qualche sperato, fantasticato contatto umano. C'è un muro invisibile tra loro, tra noi e loro, ma soprattutto c'è un muro ancora più grande che li aliena dal luogo in cui si trovano: il vecchio teatro Fu-ho, dove viene proiettata per l'ultima sera il classico wuxia che dà il nome all'opera di Ming-liang.

La donna sciancata della biglietteria mangia, pulisce, sale e scende le scale a fatica, in inquadrature fisse e fuori campo che durano un'eternità. Forse cerca il proiezionista per dividere con lui il suo spuntino di baozi, ma pare che stia inseguendo il niente.

Un tipo gay ci prova con qualcuno dei presenti in sala; ma sembra che non esista.

Degli uomini stanno davanti al pisciatoio, statuari, per tipo cinque minuti.

Una gnocca sguscia con disinvoltura tra le poltroncine vuote sgranocchiando noccioline, probabilmente in cerca di qualche preda.

È un'impasse generale e non è contemplata alcuna svolta.

Dopo quasi 45 minuti di mutismo di tanto in tanto rotto solo dalle scene dell'ultima proiezione (l'unica presenza "viva" di tutto il film che risuona in un vuoto desolante) si dice che quel cinema sia infestato dai fantasmi, ma per chi è riuscito ad arrivare fino a metà film senza addormentarsi è purtroppo un'affermazione lapalissiana: li abbiamo già visti vagare un non-percorso tra i corridoi angusti e i magazzini fatiscenti di quell'edificio, noncuranti di tutto, specialmente del grande schermo, vero protagonista dimenticato da loro e dal quale Tsai Ming-liang tenta provocatoriamente di allontanare pure noi, in un gioco di prospettive non proprio immediato. Stiamo diventando quei fantasmi? Non c'è più speranza per il buon vecchio cinema? Se questo è un omaggio alla settima arte, per quanto sentito e del tutto avulso dalle esigenze del pubblico, è il più triste che si possa concepire.

Pochissimi film, se non assolutamente nessuno, mi hanno tirato scemo come questo: è talmente autistico che in più momenti mi sono scappate delle risate - ma erano solo nervose, dettate dall'esasperazione. Poi però, proprio quando per miracolo si scorge un barlume di umanità e di speranza nelle lacrime dell'unico signore commosso per la scena finale (e sconforta ancora di più il fatto che lui stesso ci avesse recitato in passato), finisce tutto: le luci illuminano un'ultima volta la solitudine della sala, le serrande si abbassano, la pioggia continua a cadere e l'ormai ex-bigliettaia se ne va, con la sua goffa andatura e l'ombrello mezzo rotto.

Addio, cinema.

...O magari arrivederci, in tempi migliori.

 

Carico i commenti... con calma