Si sono recentemente riformati anche i Tyketto, pare che vengano a suonare pure dalle nostre parti, a Bologna il prossimo gennaio. Consiglio caldamente di andarli a vedere dal vivo: hanno un pugno di canzoni fantastiche, e sul palco "tirano" di brutto. Loro sono uno dei tantissimi gruppi americani di hard rock melodico (Class Metal? Hair Metal? AOR?...fate voi) venuti fuori verso la fine degli anni ottanta, le cui carriere sono state brutalmente compromesse nei primi anni novanta dall'inopinato voltafaccia delle major discografiche, costernate dall'incredibile successo di Nirvana e Pearl Jam e per questo ben decise a dirottare tutti gli sforzi e gli investimenti verso il nuovo verbo grunge: camicia di flanella, depressione e via andare (e grandi canzoni, anche e naturalmente). Una svolta, questa, rimasta epocale e che ha avuto il suo lato positivo, dato che non se ne poteva più, in effetti, di tutte quelle permanenti ricciolute, quelle pose da stallone insaziabile da parte di smorfiosissimi cantanti, quelle tediosissime corse a due mani sulla tastiera di chitarre e bassi elettrici, quelle fanfare di sintetizzatori da Giudizio Universale. Ma d'altro canto si è finito in questo modo anche per tarpare le ali a fior di musicisti e gruppi (Extreme, Dokken, FM, Harem Scarem, Mr.Big, Winger... ed anche questi Tyketto) impegnati a far uscire ottima musica, potente e melodica. Prima di sciogliersi nel 1996 per manifesta mancanza di sponsor, i Tyketto erano riusciti a pubblicare tre lavori in studio ed uno dal vivo. Come spesso succede è l'album di esordio, questo "Don't Come Easy" del 1991, a raccogliere il migliore ricordo, benché la conoscenza di questo gruppo possa tranquillamente iniziare, senza tema di delusioni, pure dal secondo "Strenght In Numbers", emerso a fatica nel 1994 dalle nebbie grunge. Il terzo ed ultimo "Shine" dell'anno dopo soffre invece di una produzione a bassissimo budget, proprio fatta in casa, benché intatto sia l'alto livello di songwriting. Ecco, è il songwriting che poi fa la differenza in questi casi, posto che sia inevitabile quel certo tasso di estetizzante, ottantiana ruffianeria radiofonica, praticamente implicito in questo genere di rock. Ed allora questo quartetto del New Jersey tiene un songwriting ben sopra la media, capace di far sì che il riascolto del loro repertorio sia ancor oggi emozionante. In quest'album le "perle" compositive, tanto per cominciare, rispondono al titolo di "Forever Young", esplosivo incipit con un lavoro di classe assoluta da parte di quell'ottimo chitarrista, specialmente in fase ritmica, che risponde al nome di Brooke St. James: un riff della madonna, capace di stamparsi a fuoco nell'immaginario di chi va cercando dal rock sensazioni durature e non effimeri suoni e melodie di moda. Altro pezzo forte della raccolta è la semiacustica "Seasons", con la strofa a ballata ed il ritornello hard rock, un po' come la zeppeliniana "Ramble On" per capirsi, ma ciascuno può scegliersi le sue preferite, giacché la qualità media è alta ed è solo questione di gusti propendere per l'una o per l'altra delle dieci tracce. Su tutto, molto sopra a tutto, la grande voce del frontman Danny Vaughn, un cantante veramente coi fiocchi ed anche un vero uomo: lasciò il gruppo nel 1994, per stare sempre vicino a sua moglie ammalatasi di cancro (al suo posto entrò Steve Augeri, poi nei Journey). La gente con le palle, sia musicali che umane come lui, meriterebbe molta più fortuna. Ci sarò, a Bologna a gennaio prossimo, al loro concerto. So già che saremo in duecento o giù di lì, ma vedremo di spellarci le mani.

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