Sono proprio convinto che, per realizzare un bel film, non occorrano grandiosi effetti speciali (per quanto abbia sempre apprezzato certe opere del filone fantascientifico come "2001: odissea nello spazio", "Star wars" e "Blade runner" solo per citare i primi titoli che mi vengono in mente). La bravura di un regista sta nell'affrontare i grandi temi con quello stile accattivante che fa dire, una volta usciti dal cinema, di aver speso bene i soldi del biglietto perché la pellicola appena visionata ti ha comunicato qualcosa destinato ad arricchirti interiormente.

Non sempre è così e a volte si resta delusi per quanto visto, ma (e questo è il mio parere) un film diretto da Uberto Pasolini non delude ed è un'autentica garanzia di qualità. Se avete amato il precedente "Still life", non perdete "Nowhere special - Una storia d'amore " uscito ieri nelle sale cinematografiche dopo essere stato presentato ed apprezzato al festival di Venezia l'anno scorso. Anche in questa occasione Pasolini (nessuna parentela con Pier Paolo, semmai è nipote di Luchino Visconti) offre una lezione di gran stile affrontando, fra l'altro, il grande tema del binomio vita - morte .

Ispirato ad una storia vera, si seguono le vicende di un semplice lavavetri di nome John (interpretato da James Norton) che vive e lavora a Belfast con il figlioletto Michael di soli 4 anni (da tener d'occhio Daniel Lamont, il giovane attore che lo interpreta in modo superlativo). Lui è un padre single , lasciato di punto in bianco da una donna rientrata a casa all'estero. E fin qui non ci sarebbe alcunché di anomalo (diciamo così), se non fosse che gli è stata diagnosticata in ritardo una malattia tumorale da cui non c'è via d'uscita.

E a quel punto John, che certamente non può neppure dirsi soddisfatto del proprio lavoro, si pone un giusto obiettivo: assicurare al figlio una degna collocazione in un nuovo nucleo familiare. Rivolgendosi ai servizi sociali, inizia insieme a Michael un lungo giro fra varie famiglie candidate ad adottare il piccolo. Questo iter metterà in luce sia i tanti aspetti legati alle motivazioni (non sempre encomiabili) che possono indurre certe persone a proporsi per l'adozione, sia i dubbi che insorgeranno nell 'animo del padre naturale (del tipo: sto facendo la cosa giusta per mio figlio? Ed io lo conosco poi così bene?). Ovviamente la scelta migliore possibile avverrà (pur trattandosi di un finale dal retrogusto amaro dato il declinante stato di salute di John), non senza dimostrare come il rapporto fra i due sia solido aldilà del destino cinico e baro .

Uno dei punti di forza del film è, a mio parere, il rappresentare i normali riti della vita quotidiana di un padre single e di un bambino (frequenza all'asilo, pasti in casa, lettura di fiabe, ecc.) inframmezzati dalla ricerca di una soluzione adottiva per Michael (una missione per niente facile). Eppure tutta questa quotidianità non logora affatto il rapporto fra padre e figlio, anzi. Basterebbe vedere le espressioni del volto dei due durante i colloqui sostenuti con i vari nuclei familiari candidati all'adozione. Risalta da certe frasi (o per meglio dire gaffes) che tali candidati è meglio perderli che trovarli e a conferma di ciò osservate attentamente lo sguardo di Michael che sembra chiedersi: ma io che ci faccio qui ? Papà, dove mi hai portato? Ma lascia perdere...

Ma ancor più degno di nota è il tocco giusto e delicato con cui, nel film, si affronta il grande tema della morte dopo la vita. John si rende conto che le sue condizioni di salute continueranno a peggiorare e allora, oltre a lasciare in una scatola suoi oggetti personali destinati al figlio, accenna delicatamente all'argomento mentre sta facendo una passeggiata con Michael. Il pretesto è offerto dal ritrovamento, da parte di quest'ultimo, della carcassa di uno scarabeo presso un albero. La curiosità del bambino nasce di fronte a simile fatto ed è John a spiegargli, molto semplicemente, che quello scarabeo è morto per le ineluttabili leggi della vita e della morte. Ha lasciato dietro di sé il suo cadavere ed è così entrato a far parte dell'infinito ciclo naturale. E ciò che gli è capitato avverrà per tutti noi (papà incluso) che nasciamo, cresciamo, invecchiamo e poi moriamo, pur lasciando qualcosa che è il ricordo negli altri tale da farci perpetuare in qualche modo. Spiegarlo così ad un bambino di soli 4 anni è senz'altro il miglior modo per enunciare la relatività delle nostre esistenze (cosa che spesso si tende a dimenticare). Ma va dato atto al regista di proporci questo tema alto senza indulgere a toni melodrammatici (con annessa lacrimuccia facile), ne' ad inoltrarsi in profonde disquisizioni filosofiche (sulla falsariga dello stile di Bergman). In fondo è solo la conferma che, come si usa dire in Francia, "c'est la vie" e a tutti noi non resta che adattarci all'eterno ciclo di nascita, vita e morte .

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