Beh, una cosa possiamo senz'altro dirla, anzi gridarla, ossia che gli Ulver sono la band più eclettica di questo mondo. Perché tutto potevamo aspettarci, tutto ma non che gli Ulver si confrontassero un giorno con la ridente e floreale stagione psichedelica dei mitici anni sessanta, quella dei Jefferson Airplane, tanto per citare la band simbolo del periodo. Ma anche in formato “canzonetta anni sessanta” (“canzonetta” per modo di dire, dato il valore storico degli artisti coverizzati), e quindi millenni luce dagli umori che da sempre amano professare, anche in formato analogico, gli Ulver convincono.
“Childhood's End” è dunque un album di cover, scaturito da due differenti sessioni registrate a presa diretta, una nell'autunno del 2008 e l'altra nell'estate del 2011, ma con un bel lavoro di produzione a valle che leviga le voci, amalgama i suoni ed incastona preziosismi strumentali in un mosaico sonoro degno della maturità artistica raggiunta nel tempo dal combo norvegese. Niente è accaduto nel frattempo, salvo l'uscita di quel mezzo passo falso che era stato “Wars of the Roses”, il primo album degli Ulver che non ha saputo stupire e che tutt'oggi continua a non convincere.
Punto a capo, si riparte: il trio norvegese (ormai non più trio) si avvale anche a questo giro dell'apporto di quella vecchia volpe di Daniel O' Sullivan (ex Guapo, già collaboratore di gente del calibro dei Coil e dello stesso Kristoffer Rygg – alias Garm – nei temibili Aethenor di Stephen O' Malley) che voci di corridoio quotano già come il quarto membro ufficiale degli Ulver.
Ulver che cambiano ancora pelle, svestono il manto minimal/electronics che pareva essere il paradigma espressivo ultimo e si mettono a giocare con il rock! E se l'elettronica c'è, rimane ben nascosta.
Il paradosso è che tuttavia niente è sorprendente in questo album, nonostante in teoria ci sarebbe molto da sorprendersi. “Childhood's End” in effetti soffre di un duplice senso di deja-vu: da un lato “il già sentito” che si portano sonorità che, volenti o nolenti, sono entrate dentro di noi e che fanno irrimediabilmente parte del nostro DNA; dall'altro “il già sentito” degli stessi Ulver, che rimangono loro stessi, con i loro pregi e i loro limiti, come se cambiasse la mascherina, ma la fonte di luce che vi sta dietro e proietta di volta in volta immagini diverse sulla parete fosse della stessa natura e della medesima intensità.
Paradosso spiegato dal fatto che l'opera degli Ulver evidentemente non intende essere un lavoro di trasfigurazione atto a trasformare la materia coverizzata. Ma non solo: i norvegesi svolgono la loro operazione-nostalgia con sobrietà e naturalezza, ma con così tanta sobrietà e così tanta naturalezza che tutto scorre molto liscio, in modo del tutto prevedibile, e solamente i molteplici ascolti sapranno svelarci i segreti che si celano, strato dopo strato, dietro all'apparente mancanza di ambizioni di questa nuova missione. I pezzi, infatti, non vengono stravolti, come ben ci si poteva attendere, tanto che finisce per affermarsi una difficoltà di giudizio che ha il sapore inquietante della soggettività: visto con gli occhi dell'appassionato di certe sonorità, “Childhood's End” probabilmente apparirà come un'anonima plastificazione di quella vitalità e di quell'energia che avevano animato i gloriosi tempi che furono, nonostante la selezione di artisti e brani sia fatta con il gusto del fine intenditore, lasciando alle dita di una mano il conteggio dei pochi nomi e titoli noti.
Ma quella degli Ulver è e rimane una musica notturna, è già questo di per sé vale affinché le carte in gioco siano scompaginate, poiché nonostante qua si suoni puro e sano rock, un rock germogliato e fiorito sull'onda dell'utopia e della contestazione politica, della libertà, dell'amore, della trasgressione e della rivoluzione dei costumi, l'opera di rilettura degli Ulver, tanto fedele nella forma, quanto dissacrante nel concetto, porta con sé i temi della disillusione e del rimpianto, temi già anticipati dal dramma ritratto in copertina e confermati dal titolo dell'opera. La fine dell'innocenza, come quella della giovinezza, corre al passo del ritmo martellante dei tom tom colpiti da ossa riesumate dalla preistoria del rock, sotto una sguardo malinconico che infine è il fil rouge che lega il presente al passato della band.
“Childhood's End” è infatti un percorso che finisce per onorare il passato, portando tuttavia con sé l'amarezza di chi sa cosa succederà dopo (le premesse e le disattese promesse di una generazione che voleva cambiare il mondo; un mondo che nel frattempo è cambiato ma ahimé non nella direzione auspicata); il disincanto di chi, con passo sbarazzino, sprofonda nelle tenebre della nostra coscienza collettiva: un'illusione infranta, questo “Childhood's End”, che si apre simbolicamente con il folgorante “LOVE LOVE LOVE” declamato a pieni polmoni nell'iniziale “Bracelets of Fingers” per stemperarsi altrettanto simbolicamente nei toni mistici e nei lugubri gorgheggi ecclesiastici che introducono l'inquietante quesito della conclusiva “Where is Yesterday”.
In questo bizzarro esperimento a rimanere un punto fermo è la voce di Garm. E' la voce di Garm infatti l'”elemento Ulver” che guida il cammino dei nostri e rende il tutto inconfondibile. Garm: un vecchio amico oramai, una presenza che mi accompagna dal lontano 1995, al di fuori oramai di ogni giudizio come i vecchi amici, al di sopra ed oltre ogni tipo di analisi. Garm “è” gli Ulver e il suo inconfondibile timbro, la sua impostazione obliqua, le sue immancabili policromie vocali sono quello che ci fa gridare: “Cazzo, sto ascoltando un disco degli Ulver!”, cosa difficilmente percepibile se si pensa al frenetico susseguirsi di queste sedici tracce, due, tre minuti ciascuna, una dopo l'altra, batteria, chitarra, basso, hammond, senza tregua, come la pioggia battente, pioggia battente di notte, pioggia che batte forte (basi pensare al trittico mozzafiato “I Had Too Much to Dream (Last Night)” / “Street Song” / “66-5-4-3-2-1”), pioggia a tratti tenue (la perlustrazione notturna di “Everybody's Been Burned”, la primaverile e sognante “Bark is the Dark”, la struggente e visionaria “I Can See the Light”), pioggia che gradualmente va stemperandosi, quando la notte lascia spazio alla luce del mattino, innanzi al quale i nostri depongono le armi per adagiarsi su toni più mansueti ed abbracciare lo stilema della folk ballad (sessantiana, mica apocalittica, eh?).
E in tutto questo, come sempre misurato dietro al microfono, tronfio di una produzione che ne esalta le gesta, aiutato da una velocità esecutiva che lo riporta a tratti ai fasti degli Arcturus, Garm è il camaleonte monocolore che tinge di blu ed azzurrino le vecchie “canzonette” multicolori degli anni sessanta, dove sicuramente vengono valorizzati il polistrumentismo di O' Sullivan e le doti esecutive di un musicista preparato e di estrazione classica/jazz come Tore Ylwizaker, che dai tempi di “Themes from William Blake's ...” ha saputo imprimere una nuova e sorprendente direzione artistica alla carriera dei nostri lupacchiotti, dopo un onorato passato in salsa black & folk.
Anche se poi (altro paradosso), l'economia del suono si regge sulle forti braccia di anonimi session, laddove ai membri stabili del progetto viene lasciato l'onore di infarcire l'ossatura rock di soluzioni, gemme e diamanti che certo confermano la raffinatezza dei musicisti nell'arte dell'arrangiamento.
E quindi? E quindi “Childhood's End” è l'ennesimo grande lavoro degli Ulver, seppur da relegare a status di episodio interlocutorio di una carriera multiforme, un episodio che potrebbe anche aprire nuove porte ad un percorso che non pare porsi limite alcuno. O, perché no?, “Childhood's End” è l'ennesimo scherzo ad opera di Houidini-Garm, un semplice scazzo fra amici, se volete, ma infine uno scazzo riuscito bene e confezionato con professionalità.
In una parola: amici.
Track-list:
“Bracelets of Fingers” (The Pretty Things, 1968)
“Everybody's Been Burned” (The Byrds, 1967)
“The Trap” (The Music Machine, 1967)
“In the Past” (We The People, 1966 / The Chocolate Watchband, 1968)
“Today” (Jefferson Airplane, 1967)
“Can You Travel in the Dark Alone (Gandalf, 1969)
“I Had Too Much to Dream (Last Night) (The Electric Prunes, 1967)
“Street Song” (The 13th Floor Elevators, 1969)
“66-5-4-3-2-1” (The Troggs, 1968)
“Dark is the Bark” (The Left Banke, 1968)
“Magic Hollow” (The Beau Brummels, 1968)
“Soon There'll Be Thunder” (The Common People, 1969)
“Velvet Sunsets” (The Music Emporium, 1969)
“Lament of the Astral Cowboy” (Curt Boettcher, 1973)
“I Can See the Light” (Les Fleurs De Lys, 1967)
“Where is Yesterday” (The United States of America, 1968)
Elenco e tracce
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