Così, andando a sensazione, si potrebbe immaginare che, dopo Andrea Chenier e Fedora (quest'ultima, lo ammetto, rientra ancora tra i miei "manca"), Umberto Giordano avesse già dato il meglio si sè, soprattutto considerando che con Siberia, l'opera che segue immediatamente questi due grandi successi, continua sul sentiero "sicuro" del dramma sentimentale anzichè rinnovarsi con un soggetto completamente diverso. Beh, effettivamente Giordano non era nè eclettico come Pietro Mascagni nè visionario come Antonio Smareglia, ma il suo "mestiere" lo sapeva fare benissimo, e con Siberia ha dimostrato di essere anche in grado di sperimentare, proporre nuovi elementi nel suo contesto, il versante più sentimentale del verismo. E l'ha fatto con un'opera vibrante, piena di colore, sicuramente uno dei lavori più notevoli e caratteristici di quella scena artistica e di quel periodo storico, oggi dimenticata senza un apparente perchè.

Ci sono tante cose interessanti da dire su Siberia, non solo riguardo all'utilizzo di melodie e armonie vocali tipiche della tradizione slava; ad esempio, il libretto è un soggetto originale di Luigi Illica, non direttamente basato su una fonte letteraria precendente; l'idea originaria del librettista era quella di incorporare elementi politici del dramma; Giordano, che evidentemente non voleva uno Chenier "in salsa russa" però impose la propria idea, ovvero quella di una vicenda basata unicamente su due elementi: passione e ambientazione inedita. Dal punto di vista drammaturgico, pur senza inventare nulla di nuovo, Siberia offre, attraverso i suoi personaggi, interpretazioni originali di vecchi clichè: Gleby, ennesimo esemplare della numerosa stirpe dei "baritoni-carogna", in realtà non ha quella malevolenza spietata di Barnaba nella Gioconda o Scarpia nella Tosca, è una parte più buffa che drammatica, il suo movente è la pura e semplice avidità e la sua vendetta non và oltre la maldicenza. D'altra parte Stephana, l'eroina, che parte da una situazione simile e quella di Violetta Valery nella Traviata, ma in lei non c'è nessun conflitto interiore, esce immediatamente dalla gabbia dorata della sua vita di cortigiana per inseguire l'amore, non in una villa nella campagna francese ma tra gli stenti e le privazioni di un campo di lavoro in Siberia; è un personaggio forte, vitale, e proprio per questo il suo epilogo non può essere lo stesso di Gioconda, Cio-Cio San, Tosca, Elsa e tante altre.

I tre atti di quest'opera sono quasi tre discorsi musicali indipendenti, intitolati rispettivamente la Donna, l'Amante e l'Eroina ma, oltre a rappresentare le varie sfumature del personaggio di Stephana, in ognuno di essi c'è un pezzo di Russia immediatamente riconoscibile e tutt'oggi presente: il glamour di Pietroburgo nel primo, il freddo, l'ambiente ostile e spietato nel secondo, la semplicità popolare, la devozione e l'effimera bellezza primaverile nel terzo. Opera in cui l'ambiente gioca un ruolo determinante, quindi, molto melodiosa e piena di intuizioni drammatiche e musicali assai riuscite e accattivanti. Ad esempio, invece che un preludio strumentale ad aprire c'è un breve coro, dolente e lontano, che sembrerebbe quasi una falsa partenza dato che il primo atto prende ben presto una direzione molto più vivace, in un'atmosfera di apparente leggerezza simile a quella dell'incipit della Madama Butterfly (presentata nel 1904, un anno dopo Siberia); e questo primo atto si può considerare anche come un vero e proprio prologo, la cui funzione primaria è introdurre i personaggi e porre le basi per il successivo sviluppo del dramma. Gleby ad esempio viene presentato con "O bella mia", serenata mattutina (o, più semplicemente, mattinata) con accompagnamento corale, che offre un po' di classica melodia all'italiana, deliziosa e un po' demodè, oltre a sottolineare molto efficacemente l'untuosità del personaggio; questo, ovviamente, lo si capisce solo ascoltandola nel suo specifico contesto, mai dimenticare che estrapolare pezzi operistici può creare delle mostruosità orrende, "Nessun dorma" docet. Ben più sincera e piena di slancio lirico è invece "Nel suo amore rianimata" la "cavatina" di Stephana, aria breve, come spesso accade nel verismo, sostenuta da un radioso accompagnamento d'archi; è la canzone di una donna che scopre la sua vera natura e ci si abbandona anima e corpo, incondizionatamente.

Tuttavia, la vicenda prende ben presto una piega tragica, ed è con l'austero e imponente preludio orchestrale che apre il secondo atto che inizia la vera Siberia: l'elegante salottino di Pietroburgo è ormai un lontano ricordo, sostituito da spazi aperti (a cui la musica si adegua assumendo un carattere non solo più drammatico ma anche più maestoso, con gli ottoni in prima linea) aspri e inospitali, e dalle sofferenze dei condannati ai lavori forzati, che si esprime in un coro che, almeno come idea, un po' si rifà a "O welche lust" nel Fidelio di Beethoven, ma in forma più sintetica, senza le aperture speranzose di quest'ultimo e con una tonalità più grave; inizio sommesso e un lento crescendo, di fortissima carica emotiva. E nel ben mezzo di questa desolazione irrompe Stephana; l'amore che fiorisce nel mezzo dell'avversità, che nell'Andrea Chenier viene riassunto e raccontato in una singola aria (che aria, però...) qui, a parti invertite, viene celebrato in un lungo, sublime duetto, in cui si inserisce "Orride steppe", romanza carica di un'epicità cupa e profondamente evocativa, lo splendido apice lirico del ruolo di Vassili, protagonista maschile dell'opera. Direi, con sicurezza quasi assoluta, che il secondo atto di Siberia, così intenso, breve, emotivamente soverchiante, rappresenta l'apice assoluto di tutta la produzione di Umberto Giordano.

L'idillio primaverile e bucolico che apre il terzo atto è interrotto dalla ricomparsa in scena di Gleby, che riconferma l'aspetto originale e contraddittorio della sua parte; è lui, infatti, ad innescare il finale tragico, ma indirettamente, senza un proposito di vendetta premeditata. Semplicemente, la prospettiva di un ritorno alla vecchia vita viene seccamente rifutato da Stephana, e la sua reazione si limita ad una buffa, orecchiabilissima aria, "La conobbi quand'era fanciulla", che non ha altro effetto se non provocare un momentaneo attrito tra i due protagonisti, immediatamente ricomposto. L'ultima scena è aperta da una suggestiva danza intonata da un'orchestina di balalaike; Stephana e Vassili cercano di approfittare della festa per fuggire dal kazerm, seguendo la via indicata proprio dall'ex pappone; Stephana viene però colpita a morte da una guardia e le sue ultime parole sono: "Siberia, terra santa di lacrime e d'amor, ed ora, sul tuo cuore, con te! Qui! Sempre!"; nel mentre, risuona in lontananza il coro dei progionieri: il ciclo continua imperterrito.

Quando, nel 1905, due anni dopo la prima, Siberia fu presentata a Parigi, ottenne un enorme successo di critica e pubblico, tanto che ne venne addirittura realizzata una versione in lingua francese, ma neanche questo ha salvato questa bellissima opera, tra le più creative e originali del repertorio verista, da un immeritato oblio; l'unica incisione reperibile, fortunatamente completa e ottimamente interpretata, risale al 1973; è già qualcosa, ma l'ideale, per Siberia e tante altre opere italiane di quel periodo, sarebbe un rinascimento analogo a quello che negli anni '50 portò alla riscoperta di molti capolavori di Rossini, Bellini, Donizetti e del primo Verdi; "piccolo" dettaglio, però, all'epoca c'erano una scena culturale e interpreti di un certo livello.

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