Quattordici anni di mutismo sonoro sono tanti per il demiurgo delle sei corde e chissà quanti altri ne sarebbero stati se a ridestarne il sonno non fossero stati gli insopportabili aculei della gelosia.

Null'altro se non un movente passionale può infatti essere ritrovato nell'inaspettata uscita di Van Halen, poeta strumentale che, miscelando gli orizzonti arcuati di Paganini, l'arte fiabesca di Steve Hackett con il neoclassicismo virtuoso di M. Shenker, ha dipinto oltre tre decadi e innumerevoli stadi con meravigliosi funambolismi multiformi.

Nei primi anni '90, oscurata la stella di Diamond Dave si avvicendarono tre dei momenti musicali forse più espressivi per la seconda era della band: il maturo F.U.C.K., confermato dalla iperplatinata testimonianza live Right Here Right Now e soprattutto Balance, vero e proprio inespresso canto del cigno dell'era Hagar.

Poi praticamente più nulla; solo il disgelo decadente d'una progressiva discesa verso gli inferi: la forzata inattività di Eddie e l'amorfismo artistico del lezioso Van Halen 3 con l'immolazione di Gary Cherone per i tre lustri di silenzio. E così il silenzioso antagonismo con i "reazionari" Chikenfoot sorti dalle ceneri della fallita reunion del 2004, ripreso silenziosamente dalle retrospettive di 1984, erompe deciso sulle scene nell'incipiente 2012.

I ritrovati Van Halen, ricomponendo le assenze dismesse, ritrovano se stessi attraverso l'ostracismo di Diamond Dave ed Edward Van Halen ai danni di Sammy Hagar e Michael Anthony, sostituito quest'ultimo dal figlior (pseudo)prodigo Wolfgang Van Halen.

Le prevalenti radici di "Un diverso tipo di Verità" allignano all'interno d'una selezione di canzoni provenienti da demo di nastri registrati dai Van Halen prima del loro debutto e (poco) altro materiale intenzionalmente scritto in quello stile. Rifluendo nei primordi della propria attività, il gruppo sembra aver voluto rabbiosamente cancellare le pomposità Rock-commerciali di tutta la seconda fase della propria carriera.

Sotto un profilo stilistico il platter elegge una summa espressiva tra tutto il compendio della prima era, con alcune sfumature stilistiche adombrate in 5105 e F.U.C.K.. L'intrinseca durezza che pervade l'intero lavoro eclissa del tutto l'ammorbidimento elettronico che nell'era Hagar percorreva l'anima di quasi tutte le canzoni. Qui lo sfondo totalizzante è la geniale rocciosità della chitarra di Eddie. Perché in fondo parliamoci chiaro; la nostalgica mediocrità canora di Lee Roth assieme alla pingue pochezza tecnica di Wolfgang rappresentano meri bagliori espressivi dei raggi d'un astro incommensurabile riflesso rispettivamente da Alex ed Edward Van Halen.

E a nulla vale che qualche detrattore contesti decadenze creative nella riesumazione della dialettica del non detto: il gioco dei rimandi in un meraviglioso tributo al passato rivitalizzato riluce pirotecnico soprattutto in China Town e Bullethead, mentre da Outta Space e Beats Workin' ritornano le fronde più heavy di una delle band con l'esordio più esplosivo e sorprendente del decalogo rock. Neppure il silenzioso eco di Ice cream Man riesce a spegnere l'autonomo bagliore di Stay Frosty così come l'accenno esoticheggiante di Honeybabysweetiedoll in Cabo Wabo.

Affiochisce un po' l'orizzonte dentro i riflessi delle discrete You and your blues, She's the Woman e Big river, mentre l'estro deflagrante di Eddie esplode impetuoso in tutta la propria creatività nell'apparente linearità di Blood and fire: brano che partendo in sordina un po' sulla scia di alcuni mid tempo dell'era Hagar, medio tempore si vivifica incommensurabile dentro la morsa viva di un assolo iperuranico.

Ma il topos dell'album ad avviso di scrive vive in sordina nelle note di You and your blues: rabdomantica espressività in virtuosismi silenziosi; sottile esteticità musicale dall'elegante poeticità armonica come l'involontario defilee della femminilità nella semplicità di pochi accorgimenti estetici.

"A different Kind of truth", risulta così la mera atmosfera sonora che riluce impetuosa nel cielo di memorie forse un po' troppo risalenti per poter risultare compiutamente vittoriose. Certo, la vivace differenza con il passato di Hagar risuona in maniera manifesta: la firma inaspettata del nuovo album d'altra parte può essere ritrovata dentro la sua pesantezza di roccioso rock implacabile.

Proprio i tredici brani che reinventano i Van Halen nella loro apparente diversità esprimono a forza il desiderio di resettare il passato; la volontà di non riprendere il discorso interrotto con Balance, ma anzi di ripudiarne quasi del tutto l'impronta stilistica, emerge dalla sensazione d'aver voluto imporre nei fatti antiche ricompilazioni sonore riprodotte con la palese intenzione di imporle ai Chickenfoot, al tempo trascorso, a se stessi e forse anche alle modernità del mercato discografico.

Ma dietrologie commerciali a parte il risultato di questo anatema commerciale merita comunque ampi rispetti valutativi: l'intera costruzione dell'album sui vecchi demo in fondo si rivela mossa rispettosa d'ogni antagonismo avverso. Riavviando narcisisticamente il proprio presente contro i Chickenfoot, Van Halen si è spinto all'interno della sua essenza rifluendo nella ricostruzione di propri accenni inespressi.

E così sotto un profilo narrativo le dinamiche che hanno portato i Van Halen a fronteggiare i Chickenfoot con questa travolgente uscita discografica riportano alla mente la filosofia leopardiana espressa nel Dialogo d'un Folletto e di Uno gnomo. Due entità fantastiche, immerse dal proprio Ego, deridendo la vanità umana capace di credere che il mondo fosse fatto solo per se stessa, incorrono senza rendersene conto nello stesso inganno: credendo il folletto che il mondo sia fatto per i folletti e lo gnomo per gli gnomi, dimostrano in ogni caso di volersi aggrappare entrambi alle proiezioni espresse da "un'altra verità".

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