Siamo nel 1991 e sua eccellenza Edoardo Lodovico Van Halen apre il nono disco (F.u.c.k) della band sua omonima a colpi di trapano; no, non sta costruendo la cameretta del figliolo, ma sta, come suo solito, esplorando i limiti di sopportazione di una sei corde attaccata ad un ampli. “Poundcake” è una di quelle canzoni che l’hard rock non avrebbe mai dovuto smettere di sfornare: la voce di Sammy Hagar arriva carica e adrenalinica come al solito, il resto del gruppo ha trovato un’amalgama nel sound ormai perfetta, le schitarrate furiose di Eddie sono ben accompagnate dalle ritmiche impazzite del fratellone, lo si nota nella praticamente metal “Judgement Day”.

Spanked” è il tipico pezzone dal groove strappa braccia, tipologia che troverà sublimazione in “Amsterdam”, contenuta nel successivo “Balance”. Con “Runaround” si comincia ad avere la sensazione di trovarsi nel bel mezzo di una pista ciclabile in Venice Beach mentre le due classiche biondone in pattini e costume fluorescente, che ti hanno appena sorpassato, si girano per salutarti ammiccanti. La successiva “Pleasure Dome” lascia spiazzati, pezzo quasi meditativo oserei dire, le percussioni incalzano ma la band sembra voler costruire qualcosa di diverso dai soliti riff a bruciapelo, si allontana dagli schemi collaudati quel poco che basta per variare l’atmosfera, per poi ripiombare a bordo di una spider decapottabile con lo stereo a palla ed i capelli che si lasciano spettinare dai soli di mastro Eddie, più o meno supportati da wha wha come in “In ‘N Out”.

Man On A Mission” costruisce una bella strofa e un buon bridge ma il ritornello risulta stucchevole e terribilmente già sentito sebbene lo psicopatico imbracciante “ascia” faccia di tutto per sconvolgerci. Quasi l’opposto “The Dream is over” dove il riff “mutato” richiama piacevolmente la storica “Ain’t Talking About Love”, mentre il ritornello galleggia, stranamente leggero, fra cori e falsetti. E’ con la traccia numero 9 “Right Now” che arriva il bello, Edward si mette il vestito buono e come per le grandi occasioni si siede al piano, tirando giù una melodia da colonna sonora che rimarrà nella storia del gruppo. Con “316” Van Halen cerca di farsi perdonare dal figlio Wolfgang il suo scarso amore per il “fai da te” regalandogli questo pezzo acustico classicheggiante, piacevole ma non fa gridare al miracolo.

Top of the world” rappresenta l’apice, il culmine che ti fa balzare dalla sedia a suonare il riffone senza plettro né chitarra, quello che i vecchi banali disimpegnati amanti del rock ‘n roll cafone e balordo si aspettano da un disco dei Van Halen, quindi consiglio caldamente questo disco ai succitati figlioli della pietra che rotola, non considerandolo niente di particolarmente rilevante all’interno della complessiva discografia del gruppo, ma comunque mantiene un buon livello per chi adora sollazzarsi con del sano rock.

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