Uno mette il ciddì, appena comprato (o appena taroccato, dipende… ) nello stereo di casa o, meglio, in quello della macchina, e dopo qualche brano sente guel bel gusto agrodolce di già sentito.

Sì, perché questo è il punto: Van Morrison, un gigante della canzone, della voce e del cantautorato in senso ampio, da un po’ di anni a questa parte scrive sempre la stessa canzone, così come l’ottimo Fellini sosteneva di girare sempre lo stesso film. E lo sosteneva a ragione, splendidamente. E non basta liquidare la cosa con i due pricnipi estremi, ovvero “è bellissimo a priori”, o “fa cagare perché ormai non ha più la vena”.

I quadri di De Chirico si somigliavano tutti. Non parliamo di quelli di Cascella. Già detto dei film di Fellini… eppure citatemene uno inutile. I libri splendidi di Pavese si somigliano tutti, così come quelli fruibili e divertenti di Dan Brown o di Stephen King. Ebè… ? Ebè c’è da ragionarci sopra, soprattutto noi, figli dei settanta e degli ottanta, ovvero di epoche nelle quali si riteneva fosse un obbligo artistico/morale il “passo avanti”, principio del quale l’Alfiere Massimo era l’inarrivabile Battisti, sempre uguale a se stesso e contemporaneamente sempre diverissimo, col culto dell’essere eterogeneo, mai banale o ripetitivo, sempre alla ricerca di quel “mai detto” o “non ancora detto”. Così anche Bowie: pensate quanti pochi anni separano “Tonight” da “Outside”… : dalla prima nota si sente che è sempre il Duca Bianco, ma i prodotti sono tra loro diversissimi.

Così non è, obiettivamente, per Van Morrison. Lui, unico insieme a Waits, ha avuto una incredibile mutazione/evoluzione della voce, che rende, almeno a mio avviso, per entrambi molto più interessanti i prodotti dell’ultimo ventennio piuttosto che i precedenti. Ma, a differenza di Waits, dove per l’uno c’è la sperimentazione, per l’altro c’è l’omaggio (al blues, al country, a Charles, a Dylan, ecc… ), dove per l’uno c’è la provocazione, per l’altro c’è un piacevolissimo senso di rassicurazione.
Insomma, in soldoni: essere uguali a se stessi e scrivere sempre la stessa canzone è un reato… ? O, meno gravemente, è sufficiente a rendere i dischi trascurabili o inutili… ? Avrete già capito che la mia risposta è, ovviamente,  no”. Sarà banale dirlo, ma la discriminante è “come” si fanno le cose.

Tornando al paragone cinematografico, se Pieraccioni fa tutte le commedie uguali, è un’aggravante, se lo fa Woody Allen è una caratteristica. Perché il secondo è un genio della scrittura, del tempo comico, e un discreto maestro della macchina da presa. Il primo è un modestissimo cabarettista toscano, trovatosi a colpi di culo, di simpatico accento e di fighe imperiali ad avere successo in un mondo privato del senso critico. Direte voi: ma del disco non parli… ?
Se vogliamo ne potremmo anche parlare, ma la cosa è abbastanza inutile: qui dentro c’è musica bellissima, scritta benissimo e interpretata meravigliosamente. C’è la sua ballata, il suo blues, il suo lentone funeralizio, il suo R&B, le sue urla, le sue ripetizioni, il suo menefreghismo alto per la ripetizione, la retorica e tutte le possibile critiche. Qui dentro c’è Van Morrison.

E non c’è da stupirsi che chi lo ama (pensiamo a quelli di alcune note riviste musicali italiane) gridi ogni volta al miracolo…: perché ogni volta è un miracolo. Il miracolo di un artista vivo, sempre lì, presente a se stesso e al suo (gigantesco, sommandoci tutti… ) pubblico. E per i veri artisti – e questa è la mia conclusione- non esistono eccessi di produzione, ma gioie che si rinnovano.

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