Con questo concept del 1977 Vangelis anticipa di qualche anno i tratti compositivi (ma non le sorti commerciali) degli anni Ottanta, ossia alcune colonne sonore che hanno marchiato a fuoco, per sempre, il rapporto tra disco e pellicola (Antarctica, Blade Runner e Chariots of Fire le più significative).

Il disco annuncia l’abbandono delle (fino ad allora) consuete, irruente colate elettroniche e la proposizione di un’atmosfera leggera e rilassante: la conseguente spirale ascensionale, uditiva e mentale assieme, è costante e avvolgente: si ha la sensazione di essere rapiti e portati verso l’alto, quasi dall’inquietante cavo (anch’esso spiralato) che nella copertina squarcia il cielo.

La mente, ingannata e stordita, non si preoccupa dei minuti che passano, dei solchi che scorrono, dei brani che si succedono: dalla title-track alle due soavi ballate, “Ballad” e la famosissima “To the Unknown Man” (indubbiamente la migliore canzone del disco), fino alla più vivace e composita “3+3”, è un continuum mentale e musicale.

Forse l’unico sussulto di lucidità è dato dall’angosciante  e incalzante “Dervish D” (tratta dal ballo dervish), episodio notevole e piuttosto noto (ed ennesima prova del buon gusto che ancora resisteva in RAI qualche decennio fa) ma forse anomalo per il contesto nel quale è inserito.

Concept sulla spiralità, dunque, e in quanto tale ripetitivo. Le canzoni, d’altronde, seppur pur dotate di una loro autonomia compositiva ed indubbia qualità individuale, ci girano attorno in maniera spudorata.

Vangelis lo sa e gioca su questo aspetto: puntualmente l’ascoltatore (o meglio, la sua mente) ci casca come una pera cotta.

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