Il fascino che emana questo peculiare capitolo della tradizione canora italiana è dovuto innanzitutto, a mio sentire, dai profondi e struggenti sentimenti che pervasero l'animo degli autori di tali strofe e musiche, molti di loro coinvolti e segnati dall'esperienza unica, perigliosa, dura e crudele della Grande Guerra di un secolo fa, la logorante lotta di posizione contro l'Austria in mezzo a montagne meravigliose ed insieme insidiose e terribili, pronte a ghermire con il gelo e la fame più ancora dei proiettili e delle bombe dei nemici.
Le prove estreme alle quali si era chiamati a sottoporre la propria sopravvivenza fisica e mentale, l'enorme senso di cameratismo fra chi condivideva la stessa, rischiosa sorte, la nostalgia e la speranza di poter tornare alla vita normale, alla famiglia, agli affetti, ai luoghi e alla professione perduta, hanno generato una serie di canzoni che, seppur spesso ammantate di cattolico fatalismo ovvero di certa ingenua retorica popolare, mostrano e conservano in sé la forza, la profondità, la solennità del dramma, della precarietà di vita, della fratellanza alla base della loro genesi.
A tutto questo basta aggiungere, per poter rimanere coinvolti profondamente dai canti alpini, altre due possibili e sane passioni e cioè l'amore per la montagna, per le Dolomiti in particolare che sono lo splendido e crudele teatro di buona parte di quegli struggimenti e di tali musiche, ed infine il gusto per la vocalità corale, l'armonizzazione polifonica ricca di melodie e contrappunti, l'arte di rivestire la più semplice delle linee vocali di un evocativo sostegno armonico, giocato tutto sulle voci a cappella vista la sua origine di trincea, in cima ai monti, nelle gallerie scavate in mezzo alla viva roccia dove non c'era posto per strumenti musicali e allora ci si arrangiò così, mentre ci si sforzava di restar vivi, per esserci in un domani migliore.
Traslando il tutto verso gli odierni ascoltatori di musica, chi coltiva il gusto ad esempio per le polifonie del povero Freddie Mercury con i Queen, ovvero per quelle di Chris Squire negli Yes, e ancora per l'arte canora di gruppi come Eagles, Manhattan Transfer, Crosby Stills & Nash, Little River Band, Chicago... insomma per il meglio che il rock abbia espresso a livello di canto corale, ritengo che possa in ugual modo apprezzare lo stile, l'abilità e la capacità evocativa sviluppata da questa forma tradizionale, in rigorosa cadenza veneto/trentina, di musica italica popolare.
Fior di musicisti (Arturo Benedetti Michelangeli e Luciano Chailly, ad esempio) si sono adoperati nell'arrangiare al meglio queste semplici e istintive canzoncine di montagna, allestendo sontuosi drappeggi armonici intorno ai temi originali, così donando loro dignità ed eleganza. La complessità e la dinamica dell'intreccio fra armonizzazioni, controcanti, alterazioni ed inseguimenti non raggiunge il virtuosismo di altre culture popolari (quella bulgara la più pazzesca e cervellotica: lavorano sui quarti di tono e stando intonate, le coriste bulgare, una roba da non credere!), ma in ogni caso basta e avanza per considerare di alta scuola e tutt'altro che banale anche tecnicamente tale proposta musicale.
Mi raccattai questo ciddì diversi anni fa in un negozietto prossimo al Ponte di Bassano, luogo fra i più noti, suggestivi e simbolici di tutta l'epopea alpina, scegliendolo in qualche modo fra le decine in esposizione dello stesso genere. Vi cantano due diverse formazioni, il coro "Penna Nera" di Gallarate e il coro "Stella Alpina" di Treviso. Sono più o meno presenti tutti i classicissimi del genere... titoli celeberrimi quali "Sul cappello", "Dove sei stato mio bell'alpino", "La leggenda del Piave", "Quel mazzolin di fiori", "Il testamento del Capitano", "Dammi o bello il tuo fazzolettino", "Sul ponte di Bassano" e molti altri brani meno noti, tutti così stupendamente arrangiati e superbamente eseguiti da stuoli di belle voci tenorili, baritonali e basse, da emozionarmi tantissimo, ogni volta che li riascolto.Carico i commenti... con calma