Sebbene avesse lasciato solo sporadicamente tracce del suo genio negli anni 80, Neil Young era ancora un punto di riferimento imprescindibile alla fine di quella decade. Le menti migliori del rock americano resero quindi tributo al Canadese nel 1989 con questo album, e la data non fu casuale. L’alternative americano stava attraversando un momento di febbrile ispirazione e l’omaggio al Canadese era l’attestazione del ruolo putativo di Young - il quale sarebbe di lì a poco risorto con l’ottimo “Freedom” - in tale stagione.
A dire il vero il bacino degli artisti partecipanti al progetto (nato per circostanze benefiche: The Bridge è il nome della Fondazione creata da Neil per raccogliere fondi nella lotta a malattie cerebrali) era ben più ampio – da Nick Cave a Henry Kaiser. Proprio il Re Inchiostro non delude, avvolgendo “Helpless” con ottimi intarsi gotici assieme ai fidi Bad Seeds.
Ma sono appunto gli alfieri dell’alternative americano a regalare le cover più spettacolari. I Sonic Youth forniscono una versione da applausi di “Computer Age”, classico che Neil vergò nel controverso album elettronico “Trans”. Ranaldo e soci fanno emergere quei riff che nella versione originale erano sepolti sotto il vocoder, valorizzandoli nel loro inconfondibile tourbillon chitarristico à la “Daydream Nation”. Proprio questo trasformare un brano, adattandolo allo stile della band che lo reinterpreta, senza tradirne lo spirito, è il fil rouge di buona parte di “The Bridge”. Esemplari in tal senso sono i Pixies, la cui versione di “Winterlong” è immersa nelle frammentazioni melodiche tipiche dei folletti bostoniani, tra gli estatici vocalizzi di Kim Deal e Francis e gli urticanti assoli di Joey Santiago. Eccellenti anche i Flaming Lips, la cui “After The Gold Rush” alterna febbrili deliri a sognanti parti psichedeliche, e i Dinosaur Jr, che trasfigurano il classico country “Lotta Love” in una cavalcata hardcore devastante.
Il resto del disco scivola via in un paio di omaggi privi di originalità (ad esempio gli scolastici Soul Asylum su “Barstool Blues”). Decisamente meglio Victoria Williams in una toccante “Don’t Let It Bring You Down”, oppure l’elettronica destrutturata che i Bongwater propinano su “Mr.Soul”, o ancora un ispirato Henry Kaiser al piano in “The Needle and The Damage Done”.
Forever Young!
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