Dopo l'abbandono di Cronos, nel 1987, i britannici Venom hanno continuato per tutti gli anni a sfornare lavori nella speranza di non essere dimenticati; tutto ciò che avevano ispirato era diventato molto più grande di loro. Dischi come "Temples Of Ice" passarono quasi inosservati al tempo della loro uscita, e sono quasi sconosciuti oggi. Questo non è tanto dovuto alla tecnica dei musicisti, o alla registrazione, o al mixaggio, tutti abissalmente superiori ai Venom '80 - '83 (i veri Venom), ma al fatto che il loro stile si è troppo allontanato da ciò che erano un tempo, da ciò che li ha resi un classico imprescindibile.
"Temples Of Ice" esce nel 1991 sotto la Under One Flag Records, con Mantas e Al Barnes alle chitarre, Tony "The Demolition Risk" Dolan al canto e al basso, Abbadon alla batteria. La presenza dei due membri storici non argina l'incredibile allontanamento stilistico e tematico dalle loro origini. Sotto questo punto di vista, si tratta della prosecuzione del percorso intrapreso con "Prime Evil" del 1989, ma con una mancanza d'ispirazione che non può portare il livello del disco oltre la soglia del piacevole e disimpegnato.
Il sound thrash si mescola ad arpeggi ed atmosfere pseudo-power, testi sovente di ispirazione fantasy, e poco rimane del satanismo (fittizio quanto teatrale) e della grinta di una volta. La voce di Dolan non eguaglia assolutamente Cronos, la cui mancanza si fa sentire. Vanno spese buone parole invece per i due chitarristi, che infondono all'album un punto di forza nelle parentesi solistiche e nelle ritmiche, dinamiche e serrate. Non mancano i brani parodici, non manca l'energia, ma l'ascolto scorre sterile ed insipido per tutti i suoi 40 minuti di lunghezza.
L'opener è "Tribes", energica, sostenuta ed arricchita dalle vivaci linee di basso di Dolan, che a tratti spiccano sulle chitarre. Buon pezzo, buon assolo melodico di stampo più Heavy che Thrash. "Even In Heaven" saltella indecisa tra arpeggi monocromatici e fendenti di chitarra che però non convincono; uno dei riempitivi (molti) del CD. "Trinity MCMXLV" è un altro brano ibrido, che mescola nuovamente arpeggi, un mid-tempo dai toni epic/power per sfociare in strofe speed sbraitate alla rinfusa. La solista di Mantas salva la canzone dalla mediocrità più nera, almeno in parte. Segue "In Memory Of (Paul Miller 1964 - 1990)", dotata di un po' più di verve delle due noiose precedenti, in virtù del tema trattato e della struttura più classica.
Segue una dose di riempitivi privi di valore : "Faerie Tale", che ripropone il banale quanto logorato dell'uso polpettone arpeggio/cavalcate di chitarra, "Playtime", il cui inizio scimmiotta "Jailhouse Rock" di Elvis Presley con esiti grotteschi, "Acid". Uno po' d'energia la regala lo speed/trash meno diluito di "Arachnid", ma si rimane ancora immersi nel mediocre e già sentito. Diverte invece la cover di "Speed King" dei Deep Purple, eseguita con un certo dinamismo entusiastico; ovviamente anch'essa priva di qualsivoglia valore. Chiude la title-track "Temples Of Ice" che ripropone la formula nauseabonda della melodia mescolata alla violenza, ed addirittura lascia che sia la prima a risultare preponderante. Sembra di sentire un gruppo Epic alle prime armi che a tratti si ricorda di dover fare thrash o qualcosa del genere. Avvilente.
Nonostante quest'album non meriti troppe lusinghe, lo consiglio ai dementi, come il sottoscritto, amanti dei flop dei gruppi famosi, e a chi vuole deliziarsi le orecchie con un Mantas in gran forma, seppure tremendamente fuori luogo.
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