Cristalli di ombre

È passato diverso tempo dall'ultima volta che ho ascoltato Vic Chesnutt. Ne avevo perso le tracce da "About To Choke", un disco di una bellezza impressionante, che a suo tempo ho amato tantissimo per certe atmosfere amare, capaci di comunicare efficacemente tutto il significato della sofferenza con una sincerità davvero inconsueta. Chesnutt del resto conosce molto bene il dolore, poiché vive su una sedia a rotelle dal 1983, quando rimase parzialmente paralizzato a causa di un maledetto incidente d'auto. Ma questa situazione non gli ha fatto smarrire la sua strada, la sua vita e tutto il suo amore per la musica. La sua, come un pendolo, oscilla lentamente tra malinconia e speranza. Ombre con venature di luce, infatti, sembrano essere il tratto peculiare della sua arte, che ha tante radici profonde, nobili ed importanti. Cresciuto ascoltando Bob Dylan e Leonard Cohen, riuscendo ad assorbirne la poesia, arricchendola poi di una grazia ed energia che gli sono proprie, oggi, nonostante le tante difficoltà, è riuscito a diventare uno dei cantautori americani più interessanti degli ultimi anni.

"Ghetto Bells" (New West Records - 2005)  sembra giungere per confermarlo. Con questo disco, difatti, Vic Chesnutt ha aggiunto un capitolo significativo alla sua storia di musicista, perché è un lavoro maturo e profondo, spontaneo e delicato, capace di suscitare tante emozioni dall'inquietudine, alla tranquillità, dalla dolcezza, alla malinconia. Intenso e lieve, morbido e spigoloso, vive di apparenti contrasti, riuscendo a catalizzare l'attenzione dell'ascoltatore grazie ad una voce strascicata, che sa di ricordi e rimpianti, mostrando in trasparenza tutta la ricchezza della sua umanità.

"Ghetto Bells" si dipana alternandosi tra soffuse, fluide ed immense ballate, piogge notturne, gemme di leggerezza, respiri ipnotici, dondolii irrequieti, ibridi chiaroscuri di anime nervose e fragili. E Vic riesce in questo consolidando, da una parte, i suoi riferimenti musicali citati, dall'altra aggiungendone di nuovi. Ci sono affinità con Tom Waits, non per la voce assai diversa, ma per certe sonorità ruvide e talune dissonanze sparpagliate con acume lungo il racconto del disco. Ho avvertito anche analogie con cantautori come Joe Henry e Jim White, specialmente nella capacità di far trasudare con una lenta continuità emozioni da ogni nota. Parte del merito della bellezza di questo disco va certamente condivisa con i musicisti che hanno accompagnato Vic. Su tutti Bill Frisell, il quale dimostra ancora una volta di essere un'artista incredibile, eclettico, senza confini. Il suono della sua chitarra tradotto in mille sfaccettature ora lineari, ora irregolari, è un elemento caratteristico ed essenziale dell'album. Ugualmente importante l'apporto di Tina Chesnutt al basso che Vic splendidamente definisce un martello di velluto. Ma un accenno particolare lo merita la cantante Liz Durrett protagonista insieme a Chesnutt di uno dei momenti più belli dell'album: "What Do You Mean?". Costruita in forma di dialogo tra due voci - molto diverse - crea nel contrasto un manto di toccante dolcezza con un retrogusto amaro, che si muove come un'onda lenta.

Forse è presto per parlare di capolavoro, ma se anche non lo fosse, questo disco suggestivo e penetrante ci è veramente vicino, perché appare raro e bellissimo come un cristallo attraversato dal buio.

Carico i commenti... con calma