La fusion è noiosa. Esasperato tecnicismo, autocompiacimento di musicisti super-virtuosi senza un briciolo di ispirazione. Vero, in parte. Del tutto falso, se vi capita tra le mani questo CD del 1991.

Vince Mendoza non suona alcuno strumento nei suoi dischi. Lui fa il direttore d'orchestra. Compone, arrangia i brani e dirige, ma chi? Semplicemente il gotha del jazz-fusion di quegli anni: Joe Lovano, Bob Mintzer (sassofoni), Randy Brecker (tromba), John Scofield, Ralph Towner (chitarre), Will Lee, Marc Johnson (contrabbasso), Peter Erskine (batteria), Don Alias, Manolo Badrena (percussioni). Ho dimenticato qualcuno? Ah sì, gli Yellow Jackets al gran completo.

Un tale stuolo di musicisti nobiliterebbe anche un compitino di composizione di uno studente ai primi anni del conservatorio. Niente di tutto questo, per fortuna. Qui le coordinate si fanno colte ed intellettuali; le composizioni sono di una bellezza non comune, i temi diventano anche intricati, senza però rinunciare ad una aperta e cristallina cantabilità.

Questi autentici giganti sono tutti in gran forma e ci regalano un susseguirsi di momenti indimenticabili: "Spirit Moves", manifesto programmatico del disco, con la chitarra di Scofield che si destreggia su un tappeto di synth e percussioni, ed il bel tema sottolineato dal tenore di Mintzer. "Slowly I Turn", vera e propria vetrina per l'ispirata tromba di Randy Brecker, che veleggia su "nuvole sonore" di evansiana memoria; il bel "botta e risposta" tra l'orchestra e la chitarra di Scofield in "Jung Parade"; il sublime assolo del sax soprano di Lovano in "Faithkeep", il rigore esecutivo degli Yellow Jackets in "New World", in cui emergono influenze dei Weather Report; le movenze latine di "Steady Wonder", con un languido assolo di Johnson.

Mendoza cerca di dare il giusto spazio a tutti i musicisti, manifestando una leggera predilezione per i chitarristi. Scofield qui appare in uno stato di grazia: sbriglia la sua fantasia solistica ad illuminare architetture sonore che sembrano create apposta per lui, ma ci mostra anche il suo lato più intimista in "Say We Did". La chitarra classica di Towner, poco avvezzo a questo genere di collaborazioni, si muove agilmente tra momenti fortemente ritmici ("Will to live") e le romantiche atmosfere nelle quali è da sempre a suo agio ("Faithkeep"). Ma in fin dei conti è sempre il grande leader a tenere le fila del lavoro, donando a tutto l'insieme una grande compattezza, quasi che i brani fossero diversi movimenti di un'unica suite. In questo compito è supportato dall'onnipresente ma funzionale elettronica dei synth e dell'EVI (Electronic Valve Instrument)di Judd Miller.

Il sound del disco è ultramoderno, e non sfigura alla prova degli anni. Un'orchestra jazz proiettata nel ventunesimo secolo, un gran bel lavoro, caldamente consigliato agli amanti del genere, anche se ormai di non facile reperibilità. Una sola, doverosa precisazione: qui troverete il lato più intellettuale ed estetizzante della fusion music, mentre il lato più rock ed energetico è quasi del tutto assente.

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