Le cose che si notano al mattino tendono sempre a indirizzare la giornata in un modo o in un altro e alle volte - in concomitanza di bizzarre congiunzioni astrali - si è parecchio fortunati.

Uno sputo schifoso, giallastro, raggrumato e catarroso incrostava l'asta del segnale di STOP vicino alla mia banca. Certo, non che sia veramente la "mia banca"; è solo il luogo che mi rende un mammifero speciale, un uomo degno di essere chiamato tale e che può chiamare "fratelli" gli altri uomini. Non importa quanti soldini uno abbia sul conto, l'importante è che il conto uno lo possieda: un conto per non essere totalmente invisibili, un conto per contare qualcosa.

Quel cartello stradale così inequivocabile e quell'umore espettorato in decomposizione spinta che sembrava evidenziarlo mi colpirono come l'alito lunare e le pupille dilatate di cui ho sempre pensato connotate le Sibille. Mi sono avvicinato al bancomat per dare una controllatina al mio saldo, ma, nel momento in cui mi sono avvicinato, ho intravisto il mio viso riflesso in una vetrina lì accanto e non potuto fare a meno di pensare che sto invecchiando; non era tanto per la qualità dell'immagine che appariva sul vetro quasi senza peso e come prodotta da una retroproiezione, ma era l'atto in sé che mi sbigottiva. Un tempo sarei andato dritto per dritto e avrei prelevato quel tanto che bastava per concedermi un po' di sollazzo mentre ora andavo a rimestare nel torbido dei miei quattrini come un Paperon de Paperoni dei poveri che si diverta a fare tripli carpiati e mezzo nelle sue monete d'oro, senza contare che chi fa del "pochi, maledetti e subito" una filosofia o una necessità sa esattamente quanti soldi ha in banca; lo sa al centesimo.

Me ne sono andato salutando col pensiero il mio gemello del momento e ho pensato fosse una buona idea andare a spiaggiarmi in un locale all'aperto mantenendo il giusto umidore del mio corpo grazie al sollievo di una birra leggera. La qualità maggiore dell'estate consiste nel fatto che c'è una vita animale molto intensa, variopinta, folta e dunque, tra un sorso e l'altro, se ero letteralmente estasiato dalla singolar tenzone tra due raccapriccianti esemplari di piccione che si contendevano un pezzettino di focaccia alle olive, osserverò solo di passaggio che ai tavolini accanto al mio c'era un gruppettino di studentelli universitari che, con uno sguardo intriso di stupore bovino, si compiacevano del sapere di un loro amico evidentemente più grande che li stava iniziando ai segreti recondoti di un esame che mi pareva riguardasse la psicologia.

Il fatto è che tutto questo parlar d'esami mi aveva ricordato quello del sangue che, a causa di improrogabili urgenze lavorative, avevo dovuto sostenere pochi giorni prima. Non ho alcun ritegno nel confessare che quando si parla di aghi io sono una mezza fighetta e, se da un lato questo mi protegge da eventuali derive eroinomani, dall'altro mi espone al ludibrio dell'infermiere di turno; c'è proprio il rischio che svenga, che il mio egocentrismo si abbassi al misero livello di una pelle di leopardo ed è proprio per questo che quella volta avevo ringraziato gli Dei di aver trovato una professionista dallo sguardo duro, indifferente, atono. Una voce proveniente dalle supreme altezze della prassi che senza giudicarmi troppo crudelmente mi diceva: "Le fanno paura gli aghi? Allora si stenda. Se sviene sarà già sdraiato".

Mi sono alzato dal tavolino e sono andato per le vie del centro dove a quell'ora del pomeriggio le poche persone presenti, soprattutto coppiette, si trastullano sulle mercanzie esposte nelle vetrine. Ho una mia personalissima teoria sulla distanza che devono tenere tra loro due persone che guardano una vetrina per configurarsi come "coppia felice": se è troppa significa che non si amano più, se è poca significa che non si amano ancora; la distanza giusta è quella intermedia, non più di un metro e non meno di trenta centimetri. La vera felicità ha bisogno e dello spazio vitale per respirare e di quello gravitazionale per non sfaldarsi.

Quel giorno mi era parso di constatare poca felicità nell'aria e così, spinto dall'inclinazione del porfido, sono rinculato sui miei passi andando a ficcare gli artigli intorno al collo di una brocca da mezzo litro contenente il superlativo vino bianco della mia cattedrale di fiducia: il Bar Italia. Quasi subito si è avvilluppato alla mia mente errabonda il chiacchiericcio del Seba: magnifico cirrotico cronico che, nonostante (o forse a causa) del trapianto di fegato attecchito perfettamente, ha ricominciato a bere come un pazzo e se mi sta parecchio sul cazzo che un organo sano venga sprecato per un individuo ormai in caduta irreversibile, bisogna riconoscere al Seba il buon gusto di aver dato seguito ad una sua sibillina frase di qualche anno fa in occasione della morte di un altro famoso alcolizzato della città: "il prossimo sono io".

Sono uscito a tardo pomeriggio, mi sono seduto su una panchina e mi sono acceso una sigaretta.
Ho pensato al mio gemello riflesso nel vetro, agli studenti universitari, all'infermiera che mi aveva cavato il sangue, alle coppiette del centro, al Seba. Che differenza c'è tra loro e Van Gogh? La più importante è che Van Gogh è andato fino in fondo alle sue nevrosi, ha creduto sopra ogni altra cosa alla sua visione personale del mondo, ha concesso ogni brandello di carne alla sua sofferenza. "Campo di Grano con Volo di Corvi": c'è tutta intera la paura, il raccapriccio, la solitudine di un uomo che SA che la sua vita sta per finire e vuole fare sapere agli altri come LUI lo sta vivendo. Ogni secondo è buono per vivere o per morire: non ci si pensa mai, ma è l'unica cosa che abbia una qualche importanza.

Seduto su quella panchina ho anche pensato allo sputo visto ore prima e avrei voluto conoscere l'autore di tanta meraviglia: come Van Gogh aveva trasfigurato la realtà con la sua pennellata da maestro. Sono ritornato al cartello per vedere ancora una volta quel capolavoro, ma non c'era più: qualcosa o qualcuno l'aveva cancellato dall'esistenza.

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