Il tempo ha stinto quasi del tutto l’affresco del chiostro, lasciando qua e là soltanto delle campiture di rosso e di blu. Sotto, fantasmi di arcate e di giardini. Si riconoscono sagome di alberi e, ancora blu, un pavone. Sopra, piccole alcove in fila contengono ormai da secoli ognuna il brillare di una stella. Nel sottotetto della casa del mercante, morto ormai da più di seicento anni, fanno ogni primavera di nuovo il nido i rondoni, che anche stasera pigolano e volteggiano senza posa. Qui, mentre il quadrato di cielo che ci elargisce un po’ di frescura rabbuia, qualcuno ha accordato con calma il suo liuto e ha suonato alcune composizioni di Capirola.

Aveva quarant’anni o poco più il bresciano Vincenzo Capirola quando prese in affitto una stanza a Venezia, nel 1517. Pochi anni prima, si dice, era stato ospite alla corte di Enrico VIII, dove aveva suonato alcune sue composizioni per liuto. Non molto altro, ma forse questo importa poco, si sa della sua vita, eccetto che proveniva da una famiglia di ricchi mercanti e che quindi forse componeva non per mestiere, ma solo per il gusto di comporre.

Soprattutto, si sa che alla fine dell’Ottocento apparve nel mercato antiquario un manoscritto di composizioni per liuto, finemente decorato ad ogni pagina con miniature di piante e animali: era, ed è, l’unica copia delle sue composizioni, che si sono conservate per puro caso. Il libretto si sposta dall’Inghilterra a Firenze, passando anche nelle mani di Leo Olschki, che aveva da pochi anni fondato la sua casa editrice, e va a finire alla Newberry Library of Chicago, dov’è rimasto dal 1904 ad oggi. Ma il motivo per il quale questi antiquari se ne interessarono non risiede affatto nella musica trascritta.

L’estensore di questo libretto e allievo di Capirola, di cui sappiamo soltanto il nome e la provenienza veneziana, scrisse:

Considerando io Vidal che molte divine operete per ignorantia deli possessori si sono perdute, et desiderando che questo libro quasi divino […] perpetuamente si conservase, ho volesto di così nobil pictura ornarlo, acio che venendo ale mano di alchuno che manchasse di tal cognizione, per la bellezza di la pictura lo conservasse.

E così è stato, infatti. Soltanto dopo sessant’anni, qualcuno ha pensato bene di decifrare quel piccolo libretto abbandonato su uno scaffale dei fondi antichi, forse più simile a un bestiario che ad uno spartito, e di trascriverlo in notazione moderna.

E della musica, che dire? Come l’affresco nel chiostro questa musica rimane un mistero, un’allegoria incapace di parlarci. Ma da quel poco che ancora rimane, da quei pochi accenni e da quello stinto pavone, emana un incomprensibile candore.

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