Il mastodontico "Requiem - Mezzo Forte" degli australiani Virgin Black mi aveva letteralmente stregato, con quei suoi imponenti e fittissimi goticismi venati da lunghi martiri di archi, cori, soprani e tenori, ovviamente all'ombra di una solida matrice doom. Il vero punto di forza di questa affascinante realtà Christian Metal stava proprio nella capacità di tessere magistralmente una tragica raffinatezza dal retrogusto classico per affogarla al contempo nel metal più polveroso e plumbeo, pur senza snaturare l'esile e preziosa armonia del loro lato più romantico e decadente.

Sinora ho parlato al passato. Difatti, con questo "Requiem - Fortissimo" (2008), i Virgin cambiano registro (ma non l'idea religiosa di fondo, beninteso) mostrando l'altra faccia della loro medaglia: ciò che prima faceva di "Requiem - Mezzo Forte" un pregiato ed elegante arazzo di lacrime rocciose e di strazi lirici, ora viene relegato a ruolo di semplice ma incisivo intarsio. In effetti, ascoltando il primo brano “The Fragile Breath” mi trovai di fronte con un certo stupore ad una spessa coltre di riffs tetri e soffocanti, in seguito affiancati da un abissale growl e dagli sporadici acuti di un soprano. Di certo non era ciò che mi aspettavo, addirittura temetti di assistere ad una fallita sperimentazione o peggio ancora ad una stagnazione stilistica.

Fortunatamente tutti i pregiudizi si rivelarono infondati: procedendo con l’ascolto Requiem – Fortissimo sviluppa una curiosa magniloquenza granitica, lascia intravedere abbondantemente una sinfonia fantasmagorica in buona parte dominata e ricoperta dall’impenetrabile cappa di riffs e dai lancinanti assoli, ma che nel corso di tutto l’album resta ad ogni modo un’importante e decisiva reminiscenza del predecessore Mezzo Forte. Così, gli echi disperati della già citata opener vengono più volte sublimati da una silenziosa ma devastante eruzione di cori imponenti, mentre la palpabile caligine di “Silent” è squarciata da sferzanti violini e violoncelli e dagli aggraziati acuti lirici che qua e là sbocciano come desolati mazzi di fiori sul nero sterile di una colata lavica.

Sempre mantenendo la stessa formula, “God in Dust” rappresenta l’incarnazione più apocalittica e corale del platter, raggiungendo notevoli picchi di espressività con quei fischianti e graffianti arpeggi che, verso la fine, si sciolgono nella funerea mestizia di un pianoforte e nei drappi notturni degli archi. “Darkness” mostra lo spirito più doomish del gruppo nella sua estenuante lunghezza, gestita però con una certa maestria nel creare contrasti e amalgami morbosi; “Lacrimosa (Gather Me)” e “Forever” sono invece brevi schizzi di pittoresca armonia gotica: la prima scivola sul fiume di tenori, contralti e bassi, e la seconda è una muta e sofferta promessa di solitudine al cospetto di un autunnale pianoforte che si placa senza grida, senza parole, senza sguardi né sussurri.

Quest’opera può in ogni caso soddisfare sia gli amanti del doom tradizionale che i seguaci del doom più epico e gotico, data la sua singolare ambivalenza. Purtroppo c’è chi detesta questo gruppo per la sua spiccata attitudine religiosa e cristiana che si può chiaramente leggere nei testi delle canzoni; una religiosità disinteressata e focalizzata sull’idea della redenzione e di Dio, in questo caso interpretata in chiave più “apocalittica”, complici soprattutto le atmosfere devastanti e profondissime che regnano nell’album. Non importa che voi siate d’accordo o meno con questa loro scelta, perché una cosa è certa: l’atmosfera greve e sacrale di Requiem – Fortissimo si compatta egregiamente con gli ideali espressi dal gruppo, creando un binomio che difficilmente si può scindere.

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