“[...] Ci fu una stagione in cui le classifiche nobili del cinema ponevano questo film al secondo posto a pari merito con La febbre dell'oro, dietro l'immancabile Potemkin. Negli anni successivi, il suo fascino populista venne considerato suggestione e la verità venne considerata poesia. Poi venne corretta l'interpretazione di ciò che il film rappresentava, anche fuori dal nostro paese, con un'istantanea dell'Italia del dopoguerra ritenuta misera, persino squallida. […] Per molto tempo il sentimento è stato una sorta di veleno per la pellicola. [,,,] al di là di tutto, Ladri di biciclette rimane un lavoro di bellezza assoluta, come manifesto sociale nel quadro del suo tempo, come opera cinematografica e come monumento della storia dell'arte generale” (Pino Farinotti)

Che poi, a un certo punto, il neorealismo diventò (quasi) una necessità. Fu proprio De Sica a proporlo, come primo, con “I bambini ci guardano” (1943), anticipando alcune ideuzze poi portate avanti, vent'anni dopo, da Truffaut, e in mezzo c'erano stati “Roma città aperta” (1945) di Rossellini e “Sciuscià” (1946) dello stesso De Sica. Raccontare l'Italia ferita, distrutta e malmessa di quegli anni era un dovere e i cineasti nostrani più in voga ne sentirono l'esigenza, tanto da entrare in contrasto con la politica che non avrebbe voluto dare, all'estero, dell'Italia tale rappresentazione, e in questo caso è celebre il diverbio (oggi lo chiamerebbero “dissing”) tra De Sica e Andreotti al tempo dell'uscita di “Umberto D” (1952), col politico romano che ebbe a dire che certi film facevano male alla reputazione italiana oltre i patri confini e che, testuale, “i panni sporchi vanno lavati a casa”.

Ma in “Ladri di biciclette” De Sica crede fermamente, sa che è giunto il momento di raccontare una storia come questa. Che è nota: il disoccupato Antonio Ricci, coniugato e con figlio al seguito, Bruno, racimola un posto come attacchino e subito, il primo giorno, gli rubano la bicicletta, essenziale per il suo lavoro. Attraverserà tutta Roma nel ritrovarla.

E' quasi un film documentaristico di un Italia che oggi si fa persino fatica a credere sia esistita. Il film inizia a Valmelaina, estrema periferia romana. Qui svettano delle case appena tirate in piedi, e altre da costruire, che rappresentavano un primo, rustico, abbozzo di quello che sarà, dieci anni dopo, il boom economico, ma, va detto, più fanghiglia che abitazioni (simile a quello che vedremo nel successivo “Miracolo a Milano” (1951) ma nella periferia del capoluogo lombardo, all'epoca le due città, Roma e Milano, era speculari in modo quasi totale), ci si sposta poi nella Roma più centrale, quella che oggi chiameremmo benestante, Piazza Vittorio, Porta Portese, Lungo Tevere e, infine, fuori dallo Stadio, che ai tempi non era l'Olimpico, non ancora edificato.

Girato con attori non professionisti, il cui “capo” della banda è Lamberto Maggiorani (ma, in una scena, vestito da giovin pretino vi è anche uno sconosciuto Sergio Leone), il film è, fors'anche più di “Roma città aperta”, l'opera cardine del neorealismo italiano, capace com'è, attraverso poche pennellate di raccontare tipi e situazioni connotabili solo in una determinata epoca: il dopoguerra. Tra poster di “Gilda”, fattucchiere fasulle che si fanno pagare care, raduni di poveracci che tentano disperatamente di raccattare un piatto caldo per pranzo, osterie strapaesane in cui s'intrattiene la clientela a suon di stornelli, la domenica allo stadio a vedere la Roma con la leggerezza e il disincato tipico della metà degli anni Quaranta. Ma De Sica è un regista coi fiocchi, e dirige gli attori in modo sublime (il piccolo Bruno, interpretato da Enzo Staiola, è da brividi, soprattutto nel finale in cui, non riuscendo a piangere come copione imponeva, De Sica s'inventò un astuto stratagemma, che Scola anni dopo omaggierà in “C'eravamo tanto amati” (1974), e non ve lo svelo...), ma lo è ancor di più nel momento in cui, dovendo tirare le fila del discorso, imposta un finale da Oscar (e infatti lo vinse) miscelando la suspense quasi da thriller con dei movimenti di camera fluidi tali da rendere la conclusione (il padre tenta di rubare a sua volta una bicicletta ma rischia il linciaggio della folla e si salva solo in quanto tutti s'impietosiscono nel veder piangere Bruno) un capodopera non solo narrativo ma bensì anche tecnico, da regista totale.

Si dovrebbe poi dire del famoso “pedinamento zavattiniano”, che qui è ai suoi massimi. In sostanza, secondo Zavattini, autore della sceneggiatura (e di molte altre “desichiane”), la macchina da presa, e dunque il regista, dovrebbe seguire pedissequamente e maniacalmente i protagonisti del film quasi come se fosse un occhio in più oltre a quello dello spettatore. De Sica porterà avanti questo concetto in molti altri suoi film ( si veda, appunto, “Umberto D”) e farà epoca: il neorealismo fu anche raccontare la realtà seguendo con occhio distaccato le figure che attraversano l'Italia, e infatti De Sica non giudica mai (fa bene il padre a rubare, a sua volta, una bicicletta? È giusto che la fattucchiera imbrogliona perpetui il proprio lavoro truffaldino?), racconta, narra ciò che vede e ce lo impone, nient'altro che la realtà. Zavattini fu uno degli intellettuali, al pari di Ennio Flaiano, più influenti dell'Italia tutta, figure oggi impensabili e, dunque, introvabili.

Con qualche piccola deviazione dalla logica neorealista:

“[...] E' pur vero che la struttura narrativa di Ladri […] lascia filtrare squarci quasi involontari di realtà, per così dire, laterale rispetto alla linea del racconto. E ciò va appunto nella direzione di un realismo che non vuole e, a rigore, non può identificarsi a nessun livello con la cosiddetta realtà, ma che vuole e non puo' non essere un discorso su una certa realtà” (Franco Pecori)

Alla sua uscità il film si rivelerà un grande successo, ma non esente da critiche, che, una volta tanto, non giungevano solo dagli addetti ai lavori ma anche dal pubblico. All'estero invece andò benissimo. A Roma, alla prima al Metropolitan, la gente uscendo chiese indietro i soldi del biglietto, a Parigi, invece, venne organizzata una proiezione con tremila personaggi della cultura e dell'arte. A fine film, René Clair abbracciò De Sica e il famoso critico Bazin disse: “il centro ideale intorno al quale gravitano, sulla loro orbita particolare, le opere degli altri grandi registi”

Negli anni diventò, effettivamente, un punto di riferimento per i maggiori cineasti moderni. Woody Allen lo ha definito “il mio film preferito”; Martin Scorsese se ne innamorò da bambino (insieme a “Paisà” (1946), di Rossellini) e ne fece un punto d'appoggio di tutto il suo cinema futuro; Robert Altman lo omaggierà, con garbo, ne “I protagonisti” (1992). Da qui, da “Ladri di biciclette”, non si prescinde.

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