Il neorealismo è più un esigenza che un genere. E' l'esigenza di uscire dalla fantasia in formato celluloide, dai bei ritrattini d'epoca fascista, dalla compiacenza del potere. E' l'esigenza di raccontare la realtà,senza fronzoli e orpelli, senza dovere inventare nulla, se non una storia. Il neorealismo nasce dalla società, da ciò che è rimasto dopo l'avventura della guerra, dopo i sogni di Tripoli (bel suol d'amore) e i viaggi lindberghiani firmati Luciano Serra. E' un movimento artistico il neorealismo, come lo furono l'espressionismo e il romanticismo, non possiede nessun copyright, tutti possono diventare neorealisti, solo alcuni rimaranno nella storia. I migliori.
Il neorealismo nasce nel 1943, con uno scopo ben preciso (ma, in fondo, poco coraggioso): contrastare il proliferare dei film, cosiddetti, dei "telefoni bianchi". Erano i film per signorine, quelli che oggi definiamo cuore-amore, quelli che tanto fanno arrabbiare Tarantino, ma con mode e stili di 70 anni fa. Non erano film squallidi, per carità, anzi, col senno di poi alcuni sono diventati vere e proprie pietre miliari del cinema italiano (penso, ad esempio, a "Il signor Max", di Camerini), ma, a molti intellettuali, questo modo di concepire il cinema dava fastidio, e accusavano registi e attori di superficialità, di poco coraggio, di poco estro. Poi finì la guerra, e il neorealismo si tramutò, diventando quello che tutti noi oggi conosciamo. La rappresentazione (dolorosa) della realtà.
Il film neorealista per eccellenza diventò "Ladri di biciclette" (già, proprio il film di Vittorio De Sica, attore protagonista proprio di quel "famigerato" Signor Max), anche se il film cardine su cui ruota il neorealismo è il rosselliniano "Roma città aperta", girato drammaticamente con pellicola scadente e mezzi proibitivi a poche settimane dalla fine della guerra. Il neorealismo conoscerà una stagione di grandi successi (di qualità, meno di pubblico) che, oltre a conferire prestigio e pregio al nostro cinema, riuscirà (per la prima volta) ad esportarlo oltre i confini nazionali, dall'Europa all'America, tradizionalmente ostile verso prodotti non caserecci.
De Sica senior, Rossellini, Visconti (memorabile il verghiano "La terra trema"), De Santis: sono questi i nomi che imposero il neorealismo al mondo intero. Fra i "neorealismi" più belli, un posto molto alto in graduatoria se lo merita "Sciuscià", indimenticabile capolavoro desichiano che fin dal titolo ("sciuscià" è la storpiatura di "shoe-shine", lustrascarpe) mette le carte in tavola: neorealismo puro, anche nel modo di concepire il lessico comune. "Sciuscià" ha dalla sua una intensità poetica e un senso di profonda dignità umana che ne fecero, col tempo, un vero e proprio cult generazionale, per intere schiere di cinefili americani, tra i quali spiccano Martin Scorsese (tanto da omaggiarlo nel suo "Il Viaggio In Italia"), Woody Allen, Orson Welles (che considerava De Sica il più grande regista italiano).
Impregnato di miseria e guerra, "Sciuscià" racconta la triste vicenda di due piccoli lustrascarpe, abituati a vivere ai margini della legalità nella Roma della borsa nera e dei soldati di lingua inglese. Decidono di comperarsi un cavallo bianco, ma finiscono invischiati, loro malgrado, in una losca storia di furti e rapine, e finiscono, senza colpe, al riformatorio. Vengono a conoscenza con un mondo brutto e crudele, fatto di soprusi, botte, violenza e pietà. Tentando di evadere, ma durante la fuga, troveranno la morte.
Ben diviso in due parti, (quella all'esterno e quella nel riformatorio) "Sciuscià" è forse uno dei film più realisti dell'intero neorealismo, un film che non si tira mai indietro, nemmeno davanti alla violenza più truce. Non c'è uno straccio di sentimentalismo, nè di forzato buonismo (come la trama potrebbe imporre), ma nemmeno distacco, solo lucida partecipazione e lineare cronaca dei fatti. Sta proprio qui il grande merito di De Sica: non cedere a nessun ricatto cinematografico (lacrimucce facili) senza mai però perdere di vista la vera essenza del racconto. Raccontare una storia (una delle tante nell'Italia di quei tempi) senza nè omettere nè aggiungere nulla, liscia, precisa, pulita. Più che neorealista, a tratti sembra un film verista.
E c'è la mano evidentissima di Cesare Zavattini, autore del soggetto e della sceneggiatura, soprattutto nella prima parte, quando il film procede con lentezza, a passo di bambino, come nella più classica tradizione zavattiniana, l'analisi psicologica plasmata attraverso il pedinamento degli eventi. Sulla teoria del pedinamento zavattiniano si sono scritti libri e trattati filosofici, tanto che il termine neorealismo è in qualche modo collegato col nome di Zavattini e con la sua rivoluzionaria teoria cinematografica. Talmente rivoluzionaria da diventare oggetto di curiose rivisitazioni o analogie con la filmografia moderna. Sentite cosa dice Stefania Parigi (giornalista cinematografica ad oggi conosciuta come la più grande esperta di neorealismo in Italia): "Tra le righe c'è Nanni Moretti, da tirare necessariamente in ballo per la possente analogia tra le varie e più o meno destabilizzanti forme di pedinamento della realtà, rincorsa da Zavattini per le strade della Bassa Padana armato di uno sguardo dannato dalla perversione ossessiva del dettaglio e di una semplice cornice di legno, e il walking morettiano tra le strade della Garbatella". Zavattini e Moretti, dite la verità, ci avevate mai pensato?
La seconda parte, quella ambientata nel riformatorio è meno zavattiniana e più desichiana, scompare il tema del pedinamento della realtà (che compare invece, in tutto il film, in "Ladri di biciclette") e si affaccia il tema del destino, ineluttabile, impossibile da cambiare, tragico, senza redenzione. Il finale è quanto di più tragico e ingiusto possa esistere, un colpo di mano del destino, una fatalità che non doveva portarsi via due ragazzetti innocenti, ma le ferite della guerra, evidenti nelle lunghe inquadrature che ritraggono una Roma ferita e distrutta, sono più grandi di qualsiasi discorso filosofico. Quando tutto è distrutto, niente è più in grado di salvarsi, nemmeno l'innocenza e la purezza.
Miracolosamente però, pur essendo un film tagliato in due tronconi, riesce a non perdersi in inutili orpelli effettistici e la sceneggiatura (seppur un pò ingenuotta, inutile negarlo) riesce a tenersi saldamente in equilibrio fra racconto e considerazioni sociali. Verista, come già detto, ma anche molto umana. Talmente umana da lasciarci a bocca aperta: il finale non fa piangere, non fa scendere nemmeno una lacrima, proprio perchè estremamente umano, non effettistico. Da segnalare, per onore di cronaca, le straordinarie interpretazioni di un cast di grandi attori non professionisti (come nella migliore tradizione neorealista), tra cui spicca Franco Interlenghi, l'unico che diventerà un attore professionista (non si sono avute invece più notizie di Aniello Mele, Bruno Ortensi, Emilio Cigoli e Rinaldo Smordoni).
Come tutti i film neorealisti che si rispettano, anche "Sciuscià" fu accolto negativamente dal pubblico, da parte della critica, e venne pesantemente boicottato dall'allora governo democristiano (celebre lo sfogo con cui Andreotti apostrofò i neorealisti: "I panni sporchi si lavano in casa"), mentre fu accolto molto positivamente in America dove raccolse grandi applausi e uno strameritato Oscar speciale (quella come miglior film straniero dovevano ancora inventarselo). Una volta tanto, non possiamo lamentarci dell'Accademy. Bontà loro.
Dopo "Sciuscià" il neorealismo continuò senza soste, da "Paisà" a "Umberto D.", salvo modificarsi in "neorealismo rosa" all'inizio degli anni Cinquanta quando anche i grandi registi come De Sica o Rossellini decisero di realizzare film-verità imperniati di sentimentalismo a buon mercato. Per carità, opere non disdicevoli ("Pane, amore e fantasia" è l'esempio migliore di neorealismo rosa), ma insomma, qualitativamente inferiori alle precedenti. Poi scomparve anche il neorealismo rosa, e nacque la commedia all'italiana. Altra grandissima stagione del cinema italiano.
Certo è, che lo sguardo lontano e disperato di Aniello Mele che guarda l'amico attraverso le inferriate del riformatorio, mette ancora oggi i brividi. E, col rischio di sembrare un inguaribile passatista, devo dire che quel tipo di cinema un pò (si intenda un pò come un gentile eufemismo) ci manca. E pensare che oggi Sciuscià è il nome di un locale notturno di Ercolano, onestamente, mi mette molta tristezza.
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