Sin dalla sua comparsa sulla scena musicale, nella seconda metà dei Seventies, il metal è stato attaccato dai benpensanti e dai benparlanti. C'è chi lo considerava una musica grezza, senza limiti: andando per personificazioni, quasi priva di scrupoli. C'è chi invece non riusciva a capire che cosa ci fosse di così innovativo nell'alzare di quattro tacche un amplificatore, farsi venire il tunnel carpale a forza di drumming ipersonici, raschiarsi la trachea su un microfono, magari di seconda mano, in uno studio di registrazione, magari mezzo diroccato e fatiscente. Ma, si sa, il consumo di vino e bevande alcoliche era particolarmente elevato in quegli anni.

C'era poi una terza corrente di pensiero: coloro che, impauriti dall'avanzata del genere, invitavano a boicottarlo, mettendo in piedi la scusa del "è musica per satanisti, tesoro". Musica per satanisti: per i figli di papà, voleva dire automaticamente demonio. E, nonostante le raccomandazioni, si tuffavano tutti in gran velocità. Il demonio era simbolo di trasgressione, di ribellione: qualcosa che andava oltre alla rabbia punk, qualcosa di più pesante, qualcosa di più oscuro. Ora, a distanza di trent'anni, si faccia avanti chi ha detto che il metal è la musica del demonio. E' stato forse lei, in giacca e cravatta, pantaloni in gessato e baffi bianchi ben diritti? O forse è stato lei, cappello in testa, giornale sotto il braccio, bastone in una mano, lei, con un portamento così nobile? Forse sono stati loro. Ebbene: ascoltando i Walls Of Jericho, se questa è davvero la musica del demonio, che demonio sia.

Che cos'è la realtà Walls Of Jericho? Che cosa si nasconde dietro questi termini? C'è lui: Dustin Schoenhofer, batterista dalla grande tecnica e dalla perizia anatomica, capace di innestare un drumming marziale quanto un hyperblast beat. Ma ci sono anche gli altri: i chitarristi Chris Rawson e Mike Hasty, devoti come non mai alla scienza dell'hardcore. E c'è spazio anche per un altro: il bassista Aaron Ruby, un tuttuno col suo strumento, un'ossessiva macchina da guerra. Ma la regina rimane sempre e comunque lei. E avete capito bene: dove lo spazio vuoto è solamente quello del cantante, e ci si aspetterebbe uno scontato "lui", ecco che arriva un pronome personale di terza persona singolare, genere femminile. Lei, Candace Kucsulain. Una donna a cui interessa solamente una cosa: fare più rumore possibile, anche se questo significa svendere le proprie corde vocali su eBay. E accidenti se mantiene le promesse.

Tanti cambiamenti si sono avuti nei Walls Of Jericho dalla loro fondazione in poi: grandi promesse dell'hardcore dal 1998 in poi, con la pubblicazione dei loro primi due EP ("Underestimated" e "A Day And A Thousand Years") e dell'album vero e proprio, nel 2000 ("The Bound Feed The Gagged"). Poi, la crisi: il primo batterista, Wes Keely, decide di lasciare la band per proseguire gli studi universitari, e la band non riesce a trovare il giusto sostituto. Inevitabile lo scioglimento. Ma i WOJ rinascono più forti che mai: nel 2004, Candace & Co. si riuniscono, come ai vecchi tempi, dando alle stampe un concentrato di furore ed amarezza ("All Hail The Dead"), il giusto premio per i loro fan, digiuni di screaming, drumming e altre belle cose in -ing da troppo tempo. Ancora una maledizione sembra colpire però la band di Detroit: anche il nuovo batterista, Alexei Rodriguez, decide di lasciare gli amici. Ma questa volta il colpo non viene accusato: arriva il già citato Dustin Schoenhofer, prelevato dai Premonitions Of War. Ed è tutto pronto per una nuova avventura: nel 2006, la Roadrunner fa uscire "With Devils Amongst Us All", terzo lavoro del gruppo.

Il disco si apre con il primo (e finora unico) singolo della band, "A Trigger Full Of Promises" (carino il video). Il primo paragone che viene sentendo la traccia, per quanto estremamente azzardato, è quello con "Angel Of Death" degli Slayer: batteria rullante che accompagna delle inquiete chitarre, ritmo sempre ben definito, il tutto che converge in un urlo sconvolgente, dallo stile decisamente animalesco, della Kucsulain. Le strofe successive sono decisamente più semplici: molto spazio a Candace, che con il suo screaming demolisce ben presto i timpani dell'ascoltatore, le chitarre si limitano a sottoscrivere accordi violenti e decisi negli interstizi lasciati liberi dalle parti vocali e dalle percussioni. Un po' sottotono il cambiamento di ritmo registrato attorno ai due minuti e mezzo: Candace decide di prendersi una pausa, sfoderando un simil-rap accompagnato da un ritmo marziale e da un tappeto di chitarre sul punto di esplosione. "Fight, fight, fight, fight, this broken dreams!". Perfetto il connubio fra l'epilogo della prima canzone e l'incipit della seconda ("I Know Hollywood And You Ain't It"): un vuoto inquietante, una voragine immensa, una retorica mancanza precedono uno screaming ferocissimo di Candace ("Your mechanichal eyes!"), che a sua volta apre le danze ad una sfuriata violentissima, il brano più aggressivo dell'intero disco, basato su veloci rullate e montagne di riff rocciosi e furiosi nel loro delirio di sangue, polvere e tempesta. Ottimo il ritornello, sottolineato parzialmente all'unisono dall'intera band e chiuso da un alto grido.

Tocca a "And Hope To Die": incipit all'insegna di drumming posti a poca distanza l'uno dall'altro ed intervallati dalle chitarre di Rawson e Hasty. Ovviamente non può mancare lei, Candace: il suo screaming riesce a non perdere d'intensità, anche se in questo caso viene supportata dalle controvoci del gruppo. La parte centrale della canzone è un capolavoro di rabbia: una raffica di drumming supportata dalle chitarre, con la comparsa occasionale degli urlacci della cantante. Finita una, comincia un'altra: "Plastic" è la sintesi di ciò che il disco vuole davvero dimostrare, la denuncia dei falsi valori della società ("Now I can't pretend/ to live this life of plastic happiness"), accompagnata da un drumming schiumante di rabbia e dalle chitarre, onnipresenti ed ammonitrici, pesanti ma agili a passare da un ritmo all'altro. E' giunto il momento dell'apocalittica "Try. Fail. Repeat": incipit dominato dal basso di Ruby, seguito da rullate estremamente tecniche e veloci e dalle urla di Candace. Si registrano piccoli cedimenti nella potenza vocale della cantante: il ritornello è proprietà di tutta la band ed in generale lo screaming, per quanto possibile, è attestato su toni più morbidi. Dopo una sfilza di pezzi fra il metalcore ed il thrash metal, arriva l'onirica "The Haunted": toni cupi, un nuvolone nero che incombe sulla scena, con coretti rivoltosi in lontananza, e la dichiarazione urlata di Candace ("We must survive") che spezza di fatto l'equilibrio perverso creatosi in precedenza. Uno dei pezzi migliori del disco: Schoenhofer è davvero in stato di grazia, pulito, veloce e preciso, ed il ritornello è cantato da tutta la band, in una rievocazione delle notti medioevali passate di fronte ad un fuoco.

"And The Dead Walk Again": dopo un tuffo nel passato e nelle memorie brumose si ritorna al presente più incattiviti di prima. Candace urla le sue intenzioni con un retrogusto acido, con il sangue in bocca, con la fronte imperlata di sudore, con l'ugola dolorante, con forza e decisione, come sempre. E come sempre, la band la supporta alla grande, sia sotto l'aspetto percussionistico, sia sotto l'aspetto melodico. L'ottava traccia, "Another Day, Another Idiot", ha un piglio estremamente rapido, ma riesce solamente a metà: le idee cominciano a scarseggiare, lo screaming della Kucsulain difetta di brillantezza, e solo la pesantezza volontaria -ed azzeccata- degli accordi tiene in piedi la canzone. Ai Walls Of Jericho serve proprio la pausa: i neuroni invocano, i capi rispondono. "No Saving Me", pur essendo una ballata (incredibile davvero il confronto fra Candace in screaming e Candace in versione melodica) riesce a mantenere tutta l'amarezza degli episodi più violenti senza strafare, e tentando addirittura delle rarità, quali l'inserimento di un'arpa e di un violino. Ed incredibilmente, l'idea si rivela azzeccatissima, anche per merito delle chitarre, un po' sghembe e malferme nella loro cupezza. Ma ecco, si arriva alla decima composizione, dal titolo "Welcome Home", un vero e proprio riepilogo di tutta la rabbia contenuta nel disco. Lo schema è sempre il solito: rullate estremamente rapide, riff semplici e diretti, urlacci disseminati qua e là, in un gioco sconsacrato e deleterio. Chiusura in pompa magna, con l'undicesima ed ultima canzone, l'omonima "With Devils Amongst Us All": fra uno screaming, un drumming ed un riff, compaiono dei campionamenti di tastiera dal sapore acido. Alcuni punti del pezzo, poi, rimandano addirittura ad alcune atmosfere dei System of a Down: orientalizzazioni soffocate sotto una grancassa o sei corde, tanto fugaci quanto decisive, in una corsa senza fine e senza dimensioni.

Per concludere: certamente, un disco che non si adatta ai timpani più fragili e/o esigenti, anche se la rudezza che permane nel cd suona molto meglio di qualsiasi elevazione sonora o qualsiasi raffinatezza stilistica. Violento, diretto, esplicito: è forse questa la musica del demonio? Io credo di no. Requiem.

P.S. Ragazzi, mi scuso in anticipo con voi per la lunghezza esagerata della recensione. Ci ho provato, a limitarmi. Sorry.

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