Uno spavento improvviso, un grido, una mostruosità oscena. Non è questo l'orrore che ci lambisce l'anima guardando “Nosferatu” di Werner Herzog. Non è il mostro in sé a terrorizzarci (che cos'è poi un mostro?), ma il fatto che egli provi dei sentimenti, sia lacerato dal dubbio, possa soffrire e vivere una complessità che noi riteniamo eminentemente umana. Sono gli sguardi pensosi e sofferenti di Klaus Kinski ad angustiarci, perché ci riesce difficile odiare e detestare una creatura che, pur nella sua deforme aberrazione, possiede ancora dei tratti così tremendamente vicini ai nostri. I suoi dubbi sono i nostri, le sue tentazioni sono le nostre, la sua lussuriosa sete è identica a quella che proviamo ogni giorno.
Dunque il mostro siamo noi?
Kinski che succhia il collo di Lucy ci spaventa non tanto per l'atto violento in sé, ma per i suoi connotati erotici, per la voluttà che trabocca dalle labbra del conte (abominevoli e infantili nel contempo), per la lentezza dei suoi gesti colmi di incertezza, gli occhi sgranati dallo stupore del proprio essere creatura demoniaca, ma anche umana. Sono le soglie che varchiamo, a terrorizzarci, e Werner Herzog lo sa bene, dilatando oltremodo i tempi di avvicinamento all'atto vampiresco, tenendoci in sospeso all'apice della vertigine.
Perché il male di per sé non stupisce, annoia quasi: è la faticosa transizione verso di esso (il passaggio da umano a diabolico) che ci scuote e ci fa vacillare. La scelta mai del tutto pacificata, il dubbio, e infine l'abbandono alla lussuria della carne, una lussuria che si prende le vite altrui, le consuma: questa è la mostruosità che si annida in ciascuno di noi.
E poi lo sbigottimento di una vita ormai aliena, il vuoto del perdurare, l'incubo del tempo che ha ormai perso ogni significato. Il dove e il quando. Nel mutismo degli spazi prende corpo un orrore che è quasi impossibile per noi umani. Dice Dracula: “Il tempo è un abisso profondo come lunghe infinite notti. I secoli vengono e vanno... Non avere la capacità di invecchiare è terribile... La morte non è il peggio; ci sono cose molto più orribili della morte. Riesce ad immaginarlo? Durare attraverso i secoli sperimentando ogni giorno le stesse futili cose...”.
Dunque, nella sua condizione a metà tra l'umano e il demoniaco troviamo una duplice condanna: quella del cedere alle tentazioni, del nutrirsi dell'altrui esistenza per placare i propri appetiti, e quella infernale degli interminati spazi e sovrumani silenzi, la condanna a esistere eternamente. Un film come questo riesce con le sue atmosfere sospese e spettrali (musiche dei Popol Vuh) a farci percepire anche questa seconda, il vuoto universale.
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