"Vorrei vivere in un film di Wes Anderson, vederti in rallenty quando scendi dal treno. Coi personaggi dei film di Wes Anderson: idiosincratici, più simpatici di me.

E i cattivi non sono cattivi davvero. E i nemici non sono nemici davvero. Ma anche i buoni non sono buoni davvero, proprio come me e te.

Vorrei vivere in un film di Wes Anderson: inquadrature simmetriche e poi partono i Kinks. Vorrei l'amore dei film di Wes Anderson, tutto tenerezza e finali agrodolci.

E i cattivi non sono cattivi davvero. E i fratelli non sono nemici davvero. Ma anche i buoni non sono buoni davvero, proprio come me e te."

Chissà cosa devono aver pensato I Cani quando hanno saputo che l'ultimo film del genio texano si sarebbe intitolato L'isola dei cani. Uno splendido gioco del destino che non avrebbe sfigurato proprio in un film del nostro (o almeno mio) amatissimo eroe delle geometrie filmiche.

Vivere avventure, non stare fermi in un posto.

Oltre due anni di attesa, da quando il progetto iniziò nella mente di Anderson. Io, poi, grandissimo amante del cinema andersoniano e della nobilissima arte della stop motion animation (da Burton e Selick, a Skankmajer e i fratelli Quay, da Mary and Max ad Anomalisa, solo per fare qualche piccolo esempio), ancora più in difficoltà nell'aspettare. Per di più, il film, già da subito, annunciato in ambientazione nipponica e con modelli di riferimento, da omaggiare, come Kurosawa, niente meno. Tanta l'attesa, tantissima l'emozione una volta finalmente entrato in sala, enorme la soddisfazione una volta uscito.

Certo, da amante dei felidi più che dei pulciosi canidi, si fosse addirittura chiamato L'isola dei gatti, l'entusiasmo sarebbe stato ancora più incontenibile, ma non si può avere tutto. E poi non avrei avuto lo spunto per l'incipit...

Ora, per quanto opera collettiva, chiaramente, lo stile andersoniano, tra i più caratteristici e riconoscibili di tutto il cinema contemporaneo (e come nessun altro in ambito pop), riempie ogni inquadratura, ogni primo piano, ogni momento. E chi non lo ama faticherà pure in questo caso, ma mi viene impossibile di concepire qualcosa di diverso da affetto nei confronti di questi piccoli reietti canini abbandonati su un'isola di spazzatura, seppur non riesca nemmeno a provare antipatia fino in fondo verso il sindaco Kobayashi (impossibile già di per sé provare antipatia per uno che si chiama Kobayashi...), e per la sua cerchia, sempre con indifferenti e snob gattoni al loro fianco. I cattivi non sono mai cattivi davvero, si diceva, d'altronde.

Molti gli omaggi alla cultura giapponese, teatrale e cinematografica, ma tutto funziona a meraviglia, seppur, forse, si potesse accorciare il film di una decina di minuti, ma è solo un dettaglio peraltro opinabile.

Se altissime erano le aspettative, ancora maggiore, forse, il risultato ai miei occhi: Isle of Dogs è un'opera d'arte così piena di amore per il cinema da commuovere e suscitare applausi a scena aperta, così ricca di invenzioni, bellezza visiva, tenerezza, dolcezza, battute fulminanti (già cult il Chief di Bryan Cranston), personaggi memorabili fin da subito, da meritare ammirazione e stupore. Anche pensando al lavoro straordinario che c'è dietro una produzione del genere.

La dedizione e la passione che ci vogliono nel perseguire la realizzazione di un lungometraggio a passo uno, secondo nella filmografia andersoniana dopo l'altro gioiello Fantastic Mr. Fox.

"È qualcosa di inconscio, un'emozione inspiegabile, qualcosa che non puoi dire a parole. C'è un effetto tattile magico e misterioso. Lo so che con un computer puoi ottenere le stesse cose, o anche di più, ma questo aspetto artigianale, quest'idea che tutto sia fatto a mano, produce in me un'eco emotiva. Sarò nostalgico, ma l'animazione a passo uno questo rappresenta per me." Tim Burton.

E qui sta forse tutto il senso di quel che per me è stato - ed è - questo Isle of Dogs. Un film, oltre tutto questo, visionario, distopico, dissacrante e politico, il più politico che Anderson abbia finora realizzato (seppur, ad occhio attento, già Grand Budapest Hotel presentava elementi molto più politici del solito - "You filthy, godamn, pock-marked, fascist assholes! Take your hands off my lobby boy!" come diceva l'indimenticato M Gustave) in cui gli attivisti a pugno chiuso pro cani, capeggiati dalla bionda ricciolona e brufolosa Tracy Parker/Greta Gerwig, sono evidentemente ispirati alla realtà.

Ricchissimo il cast di doppiatori eccellenti, tra cui spicca il protagonista sopracitato Bryan Cranston, assieme a più classici fedelissimi di Wes, da Bill Murray in poi (per la prima volta però nessun Wilson compare). E bravo Anderson a rinnovarsi, sottilmente, nel corso degli anni. Mantendendo, sì, il proprio stile, ma non limitandosi, ad esempio, a perseguire i ritratti di famiglie disfunzionali, o non usando solalmente vecchi brani vintage pop nelle colonne sonore. Allargandola, invece, la propria famiglia. Un lavoro, questo, che arricchisce ed espande nuovamente l'universo del regista di Rushmore e I Tenenbaum, con protagonisti emarginati, a rischio estinzione, malinconici, agrodolci, ingenuamente romantici, strampalati, viziati e ribelli, desiderosi di amore. Proprio come te e me. In questo senso, questi cani sono la più perfetta metafora di tutti gli eroi andrsoniani, proiettati in un futuro prossimo.

Guardatelo, amatelo.

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