Cambia il produttore ed il suono dei Widespread Panic s’irrigidisce un po’, appesantendosi e perdendo in questo loro quarto album di carriera (1994) un pelino della componente funk del passato. L’iniziale “Little Kin” suona così decisamente risonante per i loro standard, quasi hard rock, aggressiva e sagomata, con meno groove e più “fondo”.

Nel successivo brano,quello che s’incarica anche di titolare l’album, fa il suo esordio alla voce solista il tastierista John Herman. La sua voce dimessa e poco estesa tonalmente crea un diversivo allo ieratico e grintoso timbro del titolare John Bell, diversivo per forza di cose episodico dato il limitato talento di Herman, che però viene fatto insistere anche su “Airplane” col risultato di renderla l’episodio meno interessante del lavoro.

Cosicché il ritorno di Bell al proscenio in “Can’t Get High” è quasi un toccasana; trattasi di un bel rock blues sonoro e smargiasso. La nuova produzione fa la scelta di porre leggermente in secondo piano le percussioni di Domingo Ortiz, tirando in avanti invece cassa e rullante del batterista Todd Nance e, mi ripeto, facendo suonare i Widespread leggermente più mainstream, da gruppo sudista fra i tanti più che da ensemble votata al groove, alla jam session, al divagare psichedelico, al cambio di tempo e di atmosfera all’interno di una stessa canzone.

Anche “Heroes” è un hard rock all’americana, cioè equilibrato e stratificato, discreto ma completamente immemorabile. Non così “Rise the Roof” che pur cantata con Herman (uffa) e Bell in coppia, gode di una melodia spiccata e forte; si sviluppa come ballata lenta e semiacustica, dominata dalle voci, a parte il fluviale assolo di chitarra, stavolta acustica, di Hauser.

Junior” trasporta nuovamente il disco sui sentieri del rock blues tosto, creandomi personalmente, alfine, qualche grattacapo… Ad esempio il divino bassista David Schools in questi frangenti sparisce dai radar, messo al lavoro sulle toniche degli accordi e dei bicordi del rock come uno qualsiasi, senza più deliziare con i rituali, creativi e brillantissimi giri funk del passato. Per fortuna “L.A.” provvede a ripristinare un tantino la primitiva vena Widespread: è un 6/4 cangiante, reso peculiare da un sonoro oboe intento a descrivere un ossessivo riff di contrappunto.

Blackout Blues” si incarica invece di fornire umore sudista al repertorio, con quei cori strascicati mezzi country alla Allman Brothers su una base gagliardamente rock, e qualche cambio di tempo sottilmente jazz. L’inizialmente tranquilla “Jack” prende a ondeggiare invece fra suggestioni blues e scontatezze da genere “Americana”, con quell’organo alla Bob Dylan, o Springsteen, o Tom Petty, o Band… fino all’assolone di Hauser, che non rientra certo in quella cornice e risolleva un poco gli animi; doppiato poi da un (rarissimo) assolo del cantante Bell, chitarrista di complemento.

La ritmica funky dei Widespread si fa vedere compiutamente solo nella finale “Fishwater”, in cui finalmente si ode alla grande il percussionista Domingo Ortiz, specie ai bonghi. Ma è il solito mezzo blues stirato e monocorde, senza una melodia degna di questo nome e rinfrescato dall’esimio attacco di percussioni. Cosicché la sua unica peculiarità è servire come preambolo a una traccia fantasma, un paio di minuti di chitarra acustica sola soletta che permettono al minutaggio totale di superare i sessanta minuti.

Il meno interessante lavoro dei Panic sin qui, e forse in assoluto. Ciò non vuol dire che non sia più che dignitoso.

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