L’ottavo disco in studio dei Widespread (2003) comincia bene: l’arpeggio in minore di “Fishing” dulla chitarra acustica somiglia a mille altri, ma crea subito atmosfera. Il gruppo ci insiste sopra per tutto il pezzo, rinunciando al ritornello e facendogli così assumere un dondolio da mantra. In “This Ain’t Smells Like Mississippi” (sempre fighi i titoli) torna invece l’effetto Santana, grazie a quel ritmo rotolante pieno di timbali (pure in breve assolo) ed alla chitarra “fumata” di Houser che si rotola sul tappeto di Hammond.

Tortured Artist” mi ricorda vagamente la “Almost Cut My Hair” di David Crosby, bella acida anche questa, anni settanta da far paura, californiana. Ci pensa “Papa Johnny Road” a far tornar la musica negli stadi del sud est… sarà piaciuta al povero Gregg Allman questa cosa southern, morbida e rotonda come in Europa non saremo mai capaci di fare: strascicata e deliziosa. Terribile il contrasto col pesante, ombroso riff che introduce “Sparks Fly”, mezza biascicata e mezza cantata.

Counting Train Cars” è un country rock lineare e compatto; la slide, le chitarre, il pianoforte, l’armonica si fanno a turno tutte intorno alla voce per un episodio minore, ma impeccabile. Non così “Don’t Wanna Lose You” che gode di un riff banalissimo ma gestito con classe superiore. Più in là è il pianoforte a prendere le redini e poi concludere questo gran pezzo di rock americano ipnotico e coinvolgente.

I rintocchi della chitarra acustica in clamorosa accordatura aperta ci deliziano in “Longer Look”: solo voce e chitarra; ancestrale, primitiva, piena d’armonia. Ma il sestetto torna subito a piena forza per la corale “Meeting of the Waters”, la quale sviluppa una delle loro caratteristiche armonie oblique, dove la tonalità di base viene continuamente alterata si da rendere perfettamente immemorabile il brano, pur splendido. Ascoltate il crescendo strumentale che porta all’assolo di chitarra, con le congas sulla sinistra che “cantano” la bellezza percussiva in esse contenuta.

L’atmosfera si distrugge e si ricompone in maniera diversa nel rock blues “Nebulous”, melodicamente sbiadito, ma caratterizzato per prima cosa da un gigantesco guiro che viaggia spettacolarmente da destra a sinistra in una delle pause. Psichedelica da spavento la lunga jam strumentale prima della fine… se si chiudono gli occhi ci si può immaginare a Pompei coi Pink Floyd. Intorno al basso nodoso e perfetto di Dave Schools gli altri solisti si sbizzarriscono negli accordi e nelle note che vogliono, tanto ci pensa lui a tenerli coesi. Capolavoro, e mai titolo più centrato.

Ci si riprende da cotanto straniamento con la più terrena “Monstrosity”, che ha il tempo di un boogie ma gli accordi e il canto accorato di una ballata, un mischione che ai Widespread riesce con una naturalezza solo loro. Pure “Time Waits” è parecchio obliqua, cogli accordi che ogni tanto vanno a spasso alla maniera jazz e la mobile voce di Graham Bell, in versione confidenziale, che li segue come un cagnolino.

Il disco si conclude con lo svelto country rock “Travelin’ Man”, cantato in coppia da frontman e tastierista, che non rinuncia alle piccole stranezze della casa. Nell’occasione: un accordo di settima assai “fuori” a conclusione di ogni ritornello, un finale dilatato e psichedelico, una susseguente ghost rack strumentale, con il nastro rallentato ad arte per rendere goffo e irreale il groove.

Grandi.

P.S.: è il primo disco senza più il chitarrista fondatore Michael Houser, andatosene in mondi sperabilmente migliori di questo, causa il solito malaccio incurabile. Il nuovo chitarrista George McConnel è più tecnico e preciso, meno personale e alluvionale. I Widespread perdono qualcosa e ne acquistano altre con lui, che comunque durerà solo un paio di dischi.

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