Introduzione:
Made in USA fino al midollo la filosofia musicale dei georgiani Widespread Panic, caratteristica abituale nei gruppi come loro riconducibili al genere southern rock. Qui in Europa se li filano in pochi… di là dall’Atlantico fanno invece sempre il pieno ai concerti e questo da quasi un trentennio a questa parte, nel frattempo vendicchiando piuttosto bene la dozzina di album sinora pubblicati.
Ed eccoti in questo disco di metà carriera sei musicisti all’epoca ultraquarantenni (siamo nel 2001) più o meno spelacchiati e/o panzuti, scevri da qualsiasi orpello scenico, concentrati a far parlare i loro strumenti e ad affidare allo ieratico ed originale timbro del frontman John Bell le parti vocali e le storie che vogliono raccontare in musica. Al genere di repertorio in questione non si può chiedere particolare originalità e stravaganza ma più concretamente anima, estro, generosità, abbandono.
Di questi ingredienti se ne trovano a bizzeffe in ognuno dei loro dischi, piacevolmente costanti a livello ispirativo. Non è facile essere artisti originali, ma ancor meno muoversi in terreni ordinari, nella fattispecie un rock condito di country, hard, fusion, psichedelia, latin, soul e venirne fuori con un proprio stile e risultati spesso eccellenti.
Questi ultimi rappresentati talvolta da progressioni armoniche entusiasmanti, talaltra da jam session stordenti, e sempre con quella confortante sensazione di gente “giusta”, che bada a suonare ciò che sente e tira dritta facendosi il mazzo con interminabili concerti raggruppati in continue, spossanti tournée. Troppo simpatici e attrattivi a mio gusto questi del “Panico Dilagante”, magnifici campioni di quelle retrovie musicali dove, se si sa e si ha voglia di cercare, si pescano talvolta meraviglie.
Contesto:
Questo è un album di metà carriera, il settimo per la precisione ed anche l’ultimo nel quale appare alla chitarra uno dei fondatori del gruppo ovvero Michael Houser, lo strumentista più in evidenza dato che gli vengono concesse lunghe elucubrazioni sulla sei corde (in special modo in concerto), a prologo intermezzo od epilogo delle loro composizioni.
Houser è chitarrista del tutto adeguato e fluido in fase di accompagnamento, per poi assumere uno stile tutto suo quando si lancia negli assoli, indugianti e ripetitivi a livelli ipnotici… A seconda di come lo si prende, può risultare dal piacevolmente straniante all’oltremodo tedioso. Sua insolita caratteristica degli ultimi anni di carriera era quella di suonare da seduto, in stile Robert Fripp oppure Steve Hackett giovane. Costretto a ciò dal fatto che il suo fraseggio chitarristico, prevedendo l’uso intensivo e continuo del pedale del volume tramite il piede destro, lo aveva portato a tenersi bilanciato e caricato per anni sulla sola gamba sinistra, infine compromettendone seriamente la relativa circolazione sanguigna! In ogni caso un brutto male al pancreas si è portato via questo sfortunato musicista, l’anno dopo la pubblicazione di questo lavoro.
La banda che appare in questo disco è perciò e come sempre coesa, matura, rodata da innumerevoli concerti, sostenuta da una cospicua schiera di fedelissimi ammiratori per buona parte proveniente dagli stati del sud dell’Unione. Io vengo invece dall’Italia centrale e per questo ci ho messo una vita a incrociare la loro musica, tre o quattro anni fa; dopo di che ci ho messo un attimo a considerarli la scoperta dell’anno ed uno dei miei venti, trenta gruppi preferiti in assoluto.
Punti di forza e lacune:
La musica dei Widespread è schietta, adulta, sufficientemente variegata, sospinta da una grande sezione ritmica basso/batteria, rinforzata dalla presenza di un percussionista a tempo pieno ma svettante soprattutto nel lavoro del basso: il pingue e virtuoso Dave Schools è una macchina del ritmo perfetta, e pure capace di elevare il suo strumento al rango di solista senza cadere nel tedioso nell’inadeguato.
Bello e importante il timbro e lo stile vocale di John Bell (anche chitarrista ritmico), grintoso il giusto, roco quanto basta, intriso d’anima (soulful dicono gli anglosassoni). La peculiarità del gruppo passa soprattutto attraverso il suo canto.
Indispensabile alla causa comune anche il lavoro del tastierista John Herman detto JoJo, occasionalmente anche voce solista (dimessa e rotonda, rispetto alla ieratica raucedine di Bell). Fa tutto quello che c’è da fare senza mai strasuonare, ai pianoforti come all’organo, arricchendo il suono e non mettendo una nota in più del necessario, con classe e misura e swing tutti americani.
L’unica lacuna che intravedo in gruppi ed album come questo è che necessitano di entrarci dentro, di più ascolti, di impegno musicofilo. Il suono, la proposta musicale, l’interazione fra i vari musicisti, il mix d’influenze e di ritmi sono così centellinati che è necessario concentrarsi per cogliere i “ganci”, le squisitezze, i momenti topici che fanno di un disco qualcosa di imperdibile, da possedere, e di una band qualcosa da apprezzare, amare, rispettare, ammirare.
C’è nelle loro musiche una componente ipnotica, tardo psichedelica, che travalica armonie e melodie ed emerge prepotente, per chi la sa cogliere. Non sono solo canzoni, sono situazioni soniche che sanno prendere contemporaneamente i visceri e le sinapsi… a loro modo i Widespread Panic vanno ad incastonarsi nell’elenco delle grandi band da viaggio lisergico, cosmico, sensoriale. Accomunabili perciò a Grateful Dead, Pink Floyd, Amon Duul II, Hawkwind… entità musicalmente oltremodo diverse eppure tutte diversamente da… sballo.
Ben lo sanno i loro aficionados più convinti, che se li vanno a vedere in concerto pure decine di volte, non rimanendone mai delusi (anche perché ormai il repertorio di questi qui è immenso). Eppure, ad un’osservazione superficiale, appaiono come sei tizi appesantiti e in maglietta spiegazzata, jeans sformati e scarpacce da tennis, immobili sul palco e chini sui loro strumenti. Zero appeal e spettacolo… dalle casse dell’impianto esce però il paradiso! Guardate su Youtube uno dei loro annuali concerti alle Red Rocks vicino Denver, già di loro una venue paradisiaca: da andar fuori di melone.
Su disco è diverso, ed è questo per assurdo il limite dei Widespread. Meglio dal vivo. Però hanno l’accortezza di riciclarsi quando lavorano in studio: meno jam band e più forma canzone, meno divagazioni strumentali e più struttura, arrivando in taluni casi quasi al pop rock. Quest’albun ne è un valido esempio.
Vertici dell’album:
Due, tre, anche quattro pezzi sono magistrali, niente di meno. Vediamoli in ordine di apparizione nella scaletta che ne comprende in tutto dodici:
“Casa del Grillo” è per chi scrive l’assoluto vertice del lavoro. Tutta in modo minore, parte sorniona nelle strofe poi s’impenna e si ammalia nei ritornelli cantati interamente in spagnolo, accorati, un poco stranianti, densi di un pathos tutto latino, direi quasi Almodovariano. Un flamenco rock ipnotico e sconcertante, un’atmosfera unica, degna dei primissimi Santana (infatti Carlos si è unito qualche volta a loro per eseguirla sul palco… la sua chitarra caliente ci sta come una ciliegina sulla torta su questa qui!). L’interpretazione mariachi/folk di John Bell è al contempo uno spasso e toccante, con l’inglese e lo spagnolo che si alternano liberamente tra un verso e l’altro.
L’incipit “Little Lilly” è una nenia rock che esemplifica al cento per cento l’effetto Widespread Panic per i non iniziati (ma interessati): al primo minuto sembra una canzonetta caracollante e monocorde, poi il suo allargarsi nel ritornello ne cessa l’ondivaghezza rendendola lirica e… sexy. Vengono citati simpaticamente i Beatles nel testo (“…She Came in Thru’ the BEDroom Window…”), il pianoforte e l’organo vanno e vengono insieme alla ipnotica chitarra solista… alla fine del pezzo un novizio non sa cosa ha ascoltato e chi. Ha ascoltato i Widespread Panic, a loro modo unici.
Il resto:
“Give” è un conciso rockblues gonfio di organo Hammond, viaggia dritto e lineare come una “Gimme Some Lovin” senza però possedere il suo rinomato riff.
“Imitation Leather Shoes” è dura e pesante, anche se racconta di un tizio che non vuole più le scarpe in finta pelle. A metà percorso parte la jam, la prima dell’album: tutto si acquieta e si sgrana, si progressivizza anche, in direzione Pink Floyd con un proliferare di echi e col pianista che molla delle botte sui tasti in stile Thelonious Monk e poi gioca di vibrato Leslie passando all’organo. Pare di stare nel mezzo di “Interstellar Overdrive”, uno spasso. Dal vivo la fanno durare anche un quarto d’ora, e le canne fra il pubblico si sprecano.
“This Part of Town” prende a viaggiare di groove funky-confidenziale, infatti la canta il tastierista che possiede un’emissione pacata e soffice, ricca di bassi. Il breve intermezzo strumentale è però corposo e risonante, del tutto rock.
“Sometimes” è una sorprendente cover del gruppo alternative rock fIREHOSE, suonata meglio di loro (e che ci vuole), più rotonda, più evocativa che arrabbiata, e poi c’è il basso di Herman a fare la differenza.
L’acidissima “Thought Sausage” si affida ad un insistente pedale wha wha: un riempitivo.
Giudizio finale:
Chevveloridicoaffà. Mi piacciono un casino.
Non è un gruppo da exploit, da spettacolo, da alti e bassi. Hanno una costante eccellenza, una completa umiltà, una feroce coesione. Gruppo da ascoltare lungo un disco intero o anche più di uno, provando a mettersi sulla loro lunghezza d’onda per, che so, una settimana o due, ascoltando magari anche solo loro, per cavalcare l’onda e stordirsi nella loro musica senza spigoli ma squisita, per poi magari ignorarli per mesi e poi ritornarci. Trovo questo disco uno dei loro migliori, anche se il mio giudizio potrebbe essere potenziato dal fatto di essere quello che me li ha fatti scoprire.
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