Il terzo lavoro della formazione georgiana esordisce con uno dei loro pezzi forti: “Pleas” è dotato di un’eccelsa e memorabile melodia, pur poggiata su accordi ordinari: un must dal vivo, da questo momento in poi (1993).

Da qui in avanti il gruppo si assesta definitivamente a sestetto: arriva in pianta stabile John Herman a ricoprire il ruolo di tastierista, fin lì affidato ad ospitate più o meno stabili. Il suo ruolo nel gruppo diviene subito importante, a livello compositivo e come saltuaria seconda voce solista, in alternativa a quella dell’impagabile John Bell.

Hatfield” è un rock blues intenso, dilatato da assoli di basso e pianoforte, reso ipnotizzante dall’incessante, “malato” arpeggio della chitarra elettrica. Del tutto diverso da “Wondering” che procede smargiassa e serena, punteggiata da deliziosi interludi di terzine, pienamente di classe, che spezzano la sua uniformità. “Papa’s Home” si sviluppa invece lenta e percussiva, dilatata, con una melodia niente di speciale retta però bene dalla magnifica voce di Bell; come spesso succede con loro, intervengono dei piccoli intermezzi in tempo accelerato e diverso, stranianti, a rendere quasi morboso il ritorno del tema lento principale.

La più lunga canzone dell’album, in ragione di esagerati interventi solistici del chitarrista Michael Houser, si chiama “Diner” e sinceramente non merita di occupare oltre sette minuti di spazio nel disco. Ben meritevoli invece i cinque minuti di “Better Off”, la quale pigia l’acceleratore sul funky rock molto alla Little Feat, con Bell che sembra proprio il californiano Paul Barrere, sciolto e allegro.

Capolavoro dell’album è senz’altro “Pickin’ Up the Peaces”, che conquista subito con una memorabile pizzicata di mandolino, a preludio di un paio di accordi di… funky dimesso, che caratterizzano poi buona parte del pezzo; il mandolino imperversa nelle porzioni strumentali, suonato nello stile alluvionale caratteristico del solista Michael Houser. “Henry Parsons Died” che segue è una cover, tutta in controtempo nelle strofe e che poi si distende e intensifica nei ritornelli e nell’ossessivo assolo di elettrica: niente di che.

C’è molto di più in “Pilgrim”, retta dal caratteristico stile arpeggiante di Houser, capace di esprimersi in grumi di accordi insoliti e quasi sorprendenti, a caratterizzare il lato peculiare della proposta dei Widespread Panic; che bravo musicista questo riccioluto e sfortunato chitarrista (deceduto da tempo)! Ancora lui rifulge nell’hard rock “Postcard”, anche se la parte del leone la fa la coppia di cantanti Bell-Herman che intona le strofe distanziandosi di un’ottava; essendo un hard rock dei Panic, ovviamente è condito da robusti cambi di tempo e di intensità, giochetto che riesce loro bene perché la sezione ritmica (tre musicisti, c’è anche il percussionista Domingo Ortiz) è un gioiello, tutti duttili e coesi come solo negli Stati Uniti sanno essere.

Proprio le percussioni, intonate e glissanti, muovono bravamente il brano finale “Dream Song”, che rispettosa del titolo procede onirica e psichedelica, grazie al solito febbricitante arpeggio di elettrica e ai quieti tappeti di organo. Che bravi!

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