C'è del McCarthyiano in Gay, qualcosa che sfiora "Suttree" e va oltre, lambendo i necrofili territori di "Uomo di Dio" e pentrando l'asprezza filosofica della "Trilogia della Frontiera", nonchè del celeberrimo on-the-road "Non è un Paese per Vecchi", ma la cosa più McCarthyiana resta l'interesse riscontrato nel nostro (aperte le virgolette) Bel (chiuse le virgolette) Paese, dove il romanzo dello scrittore tanto incensato da Stephen King viene pubblicato da una piccola casa editrice romana, la Gea Schirò - dalla quale, presumibilmente, non uscirà prima di un'eventuale cinematografizzazione: purtroppo.
La pazienza con cui lo scrittore descrive il paesaggio.
La naturelazza di certune ambientazioni.
La tridimensionalità plastica del sicario ingaggiato dall'impresario di pompe funebri per far fuori il ragazzo che ha scoperto le sue malefatte con i morti (evirazione, depredazione, posizionamenti difficilmente definibili come 'sessuali').
E ancora: una scrittura raffinata che rievoca la prosa del Mann de "La Morte a Venezia" o del Faulkner di "Santuario", il gusto dell'orrido dissipato dalla bellezza estetica di una fanciulla o di una pianta; la lotta tra il bene e il male viene analizzata come nucleata nel cuore dell'umanità e del singolo individuo, ed è forse questa la raison d'être, il manzoniano sugo del discorso, cioè che WG guarda alla violenza nevrotica con gli stessi occhi con cui osserva "una ragazza coi capelli del colore e della lucentezza di un’ala di corvo" sovrstati da "un cielo indifferente": i corpi sono ormai al di là di ogni commiserazione; è difficile immaginare quale peccato sia stato tanto enorme da averli condotti a una fine tanto penosa.
Spaventa e affascina, sfumando un'emozione coll'altra così labilmente quasi da confondere il cuore del lettore.
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