C’era una volta la piazza di paese: c’era per tutti, persino io ci sono stato.

Come un micio a primavera perlustra i prati in fiore, io gironzolavo felice e ricettivo insieme ad altri mocciosi come me; tutti avidi di capire e di farsi capire. Ero la dannazione di mia madre, continui “Cris stai troppo in giro, ora basta!” oppure “Ancora in piazza!? Studia e non perdere tempo!”.

No mamma... Non perdevo tempo.

La piazza del mio paese quando avevo una dozzina d’anni, era un vero e proprio laboratorio sociale dove generazioni differenti si scambiavano pezzi delle loro esistenze. Era una condivisione di tempo e di spazio tra le più disparate esistenze delle più disparate età e quello che, di volta in volta, accadeva, poteva prendere le pieghe più improbabili ed avere per protagonisti i personaggi più assurdi (memorabile fu quando gli anziani sfidarono noi piscia-sotto ad una partita di lippa nella quale, naturalmente, ci fecero a pezzi).

Nascevano amori e alticce jam acustiche, Destrorsi e Sinistrorsi sbraitavano gli uni contro gli altri finendo il pomeriggio a tarallucci e vino e poi ancora litigate per una figurina rubata, gavettoni, consigli paternalistici, primi approcci con le droghe, dubbi sull’esistenza di Dio...

Insomma eravamo tutti insieme, dai dodici agli ottant’anni, in un luogo che era teatro dei temi più diversi i quali, immancabilmente, si intrecciavano tra loro in un turbinio che sembrava senza fine.

La Tempesta”, scritta e rappresentata per la prima volta nel 1611, è l’ultima opera teatrale scritta da Shakespeare (o almeno, l’ultima composta interamente da lui). Narra le vicende di Prospero, duca legittimo di Milano, che, esiliato dai suoi possedimenti, conduce una vita di stenti in una sperduta isola insieme alla figlia Miranda e al selvaggio Caliban (unico autoctono del territorio). Prospero però è anche un maestro nelle arti magiche e, proprio grazie a queste e all’aiuto di Ariel (spirito dell’Aria e servo del duca, in attesa però di essere liberato), riesce a scatenare una tempesta e a far naufragare sull’isola la nave dove viaggiano suo fratello Antonio (usurpatore del suo trono), Alonso (re di Napoli) e suo fratello Sebastiano (complici di Antonio), Ferdinando (figlio di Alonso), Gonzalo (vecchio e nobile consigliere), Trinculo (buffone di corte), Stefano (cantiniere ubriacone) e tutta la ciurma. I propositi del vero duca di Milano sono ovviamente di vendetta, ma, durante la storia, anche grazie all’amore incipiente tra sua figlia e Ferdinando (peraltro astutamente progettato da Prospero), modificherà i suoi piani preferendo una riconciliazione pacifica con Antonio ed Alonso in cambio della restituzione del suo trono.

Per molto tempo, forse perché questo dramma fiabesco è stata l’ultima fatica del Bardo, si è stati inclini ad interpretare “La Tempesta” (e specialmente il personaggio di Prospero) come il grande epitaffio che Shakespeare compose per la sua vita (artistica e personale) che sentiva ormai sfuggirgli. Prospero in effetti è un re anziano, saggio, colto, che osserva attraverso una lente di serena amarezza il mistero dell’esistenza umana e che, nelle sue azioni, è guidato dalla stella polare della temperanza ("Io mi schiero al fianco della più nobile ragione. Le opere della virtù sono più rare di quelle della vendetta").

La Tempesta” però, è come la mia piazza di paese; è un luogo dove tante cose accadono e tanti argomenti si saldano e si intersecano tra di loro: sarebbe davvero riduttivo (per non dire sbagliato) approcciarsi a quest’opera unicamente in questa chiave.

Prospero (come Alonso del resto) è innanzitutto un duca e, anche se la storia si dipana soprattutto per altre vie, Shakespeare pone, se non centralmente almeno di traverso, il problema di come il Principe debba regnare e di come debba, faticosamente, ricercare continuamente un equilibrio fra l’uomo ed il regnante. E’ rinvenibile una punta di rimpianto e di auto-rimprovero quando il duca di Milano ricorda che: “Io, pover’uomo, la mia biblioteca era gia' un ducato fin troppo vasto”, lasciando così campo libero ad Antonio.

Ma Prospero è, proprio grazie ai suoi ininterrotti studi, anche un mago prodigioso. In un periodo storico in cui il confine tra scienza e magia era labilissimo e in cui si stava vivendo un vero e proprio passaggio dalle credenze medievali al metodo scientifico, il duca di Milano sembra quasi porsi nel mezzo: utilizza una sistematicità e un approfondimento da scienziato per arrivare a conoscenze da stregone.

Dunque Principe, mago, ma Prospero è anche un colonizzatore. Anche qui Shakespeare concede grande attenzione ad un problema tipico del suo tempo, ovvero quello della “gestione” delle tribù e delle genti di altri continenti assoggettate dalle grandi potenze europee (una delle “fonti” più importanti del dramma è il saggio di Montaigne, filosofo umanista contemporaneo a Shakespeare, sui cannibali). Dunque Caliban (che le note di regia vogliono “schiavo selvaggio e deforme”) e i suoi rapporti con gli ospiti dell’isola acquistano un’importanza non indifferente nei livelli della drammaturgia.

Un altro tema di primo piano è la musica, sotto diversi aspetti. Prima di tutto Ariel in tutti i suoi interventi (secondo i precetti della regia) è preceduto o accompagnato da una musica ora solenne ora “bizzarra” che sottolinea la sua natura extra-umana, senza dimenticare poi che l’isola è continuamente impregnata dai rumori del mare, della fauna e degli elementi che, in certe occasioni, sembrano prefigurare ensemble di musica concreta. E poi la stessa struttura del dramma, con la sua roboante ouverture, con le sue variazioni, dilatazioni e progressioni e con il suo rarefatto fade-out dell’epilogo sembra costituire una vera e propria partitura sinfonica.

Ritornando a Prospero, abbiamo detto di lui duca, mago, colonizzatore, ma dobbiamo aggiungere regista teatrale e drammaturgo. Questo “inserimento” del teatro nel teatro è certamente una costante di tutta la produzione shakespeariana. Prospero assegna vari compiti ad Ariel (che è il suo primattore e scenografo) riguardanti “spettacoli di magia complessa” che servono a scatenare tempeste o affabulare i suoi nemici (non a caso il duca si rivolge a lui dopo ogni impresa con parole inequivocabili: "Hai inscenato a dovere la tempesta che ti avevo ordinato?” oppure “Debbo usarti per un altro spettacolo, chiama la compagnia di cui ti ho messo a capo”). Non solo, l’amore tra sua figlia Miranda e Ferdinando è accuratamente e pazientemente preparato da Prospero con tutte le cure di un sapiente drammaturgo.

Ma, altra costante shakespeariana, la ricerca teatrale si incastona nella più generale ricerca (sempre transitoria e parziale) di un senso alla vita umana. Anche in questo dramma i personaggi non raggiungono un tale livello di conoscenza (che non è dato e mai sarà dato sapere), ma Shakespeare guida ogni personaggio in un percorso in cui tutti conquistano un certo grado di consapevolezza maggiore rispetto all’inizio della storia. Su tutti incombe il nero spettro della morte tanto che persino Prospero nell’ultimo atto, quando tutto è andato secondo i suoi piani, afferma: “Mia Milano, dove un pensiero su tre sarà per la mia tomba”.

Potrei continuare (che dire per esempio dei personaggi di Trinculo e di Stefano che sembrano presi di peso dalla Commedia dell’Arte o dei continui rimandi all’ “Eneide” di Virgilio e alle “Metamorfosi ” di Ovidio), ma mi fermo qui. Una cosa è certa, per tutto quello che “La Tempesta” porta con sé e per la difficoltà di una messa in scena davvero “soddisfacente”, è difficile non concordare con il grande Peter Brook quando affermava che <”La Tempestaè un enigma>.

Quest’estate sono andato a trovare i miei genitori al paese e un impulso irresistibile mi ha portato in quella piazza all’ora del tramonto, quando, ai tempi della mia fanciullezza, brulicava di vita.

Mi sono seduto su un muretto e ho acceso una sigaretta.

Un gatto mi ha guardato incuriosito e un ragazzino è passato con il naso ficcato nell’ iPhone.

E’ stato allora che ho ripensato alla battuta di Prospero: “Tutto svanirà senza lasciare traccia. Noi siamo della materia di cui son fatti i sogni e la nostra piccola vita è circondata da un sonno”.

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