Anno 1976: quando Wim Wenders era un grande regista.

Viaggio di formazione, perché questo del regista tedesco è un "road movie".

Un "road movie" dall'incredibile equilibrio formale e narrativo, come forse non è mai stato in grado di (ri)fare. Un "road movie" in cui è il tempo il protagonista ed è lui a misurare la strada, non i chilometri.

I due protagonisti Bruno Winter (soprannominato King of the road) e Robert Lander (soprannominato Kamikaze) si incontrano per caso Robert con la sua auto si getta in un fiume, deciso a suicidarsi (ecco il perché del soprannome) Bruno si è appena svegliato nel suo furgone ed assiste alla scena. Bruno è un riparatore di proiettori cinematografici che gira per la Germania, lavorando nei piccoli cinema locali. Da qui ha inizio il loro viaggio insieme...

Inizialmente i due sono piuttosto distaccati, freddi uno con l'altro, la cosa è sottolineata da Wenders in maniera palese: non fa mai apparire i due nella stessa inquadratura, inoltre sarà solamente dopo due giorni di viaggio che i due si presentano l'uno all'altro.

I dialoghi sono essenziali, scarni ma pieni di significati ("Non mi interressa la tua storia, mi interessa chi sei!" dice Bruno a Robert). Mentre i silenzi sono densissimi: lentamente riempiti dagli spazi dalla strada, dal paesaggio circostante, dalle ruote del furgone che macina strada. Qui Wenders si supera in inquadrature geometriche davvero intense, mai formali sempre pregne di simbologie.

Col passare del tempo i due instaurano un rapporto d'amicizia, o meglio di conoscenza reciproca, perché questo non è un film su un'amicizia, ma è piuttosto l'incontro tra due diverse individualità che condividono un'esperienza ma che inevitabilmente li porterà a percorrere strade diverse: a questo proposito è suggestiva e toccate la scena della separazione alla fine del viaggio con sguardi e parole sussurrate. Tanti sono i momenti "decisivi" del film uno tra i più intensi è senza dubbio la casuale improvvisazione in un cinema di una sorta di comica alle "ombre cinesi" divertente e malinconica al tempo stesso, di Chapliniana memoria.

Un film dove convivono con disarmante naturalezza immagini di intima liricità alternate ad inquadrature di quotidiana secchezza. Da sottolineare anche la bellissima fotografia del film un bianco e nero profondo, marcato come memoria indelebile. Una menzione particolare anche alla buonissima colonna sonora composta da Axel Lintsadt.

Non va comunque dimenticato che questo è un film che riflette sul cinema (europeo) che secondo Wenders si andava perdendo... Ma molteplici sono le chiavi di lettura di questa pellicola che si rinnova ad ogni visione. In fondo "bisogna cambiare tutto" nel corso del tempo è (forse) possibile.

Capolavoro.

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