Trascorsi ben oltre trent’anni dall’esordio (trattiamo stavolta di un disco del 2006), i Wishbone Ash sono oramai pienamente nella loro dimensione finale caratterizzata, diciamo così, da una conduzione familiare. L’unico membro fondatore rimasto, il chitarrista e cantante Andy Powell, ha infatti il pieno possesso del marchio e delle strategie di carriera del gruppo, ridotto a band di “culto” ossia fuori moda quanto si vuole, ma appoggiato da un generoso nocciolo duro di ammiratori, quelli rimasti dall’epoca d’oro degli anni settanta più uno stuolo di loro figli e nipoti debitamente svezzati, nonché gente più giovane con le orecchie ben educate ad apprezzare il nuovo/vecchio rock “classico” esploso negli anni settanta.

Coi dischi che si venducchiano dunque ai soliti noti, più qualche nuovo adepto conquistato qua e là, è la serrata, faticosa attività concertistica a far sopravvivere il gruppo e a finanziarne i nuovi dischi. Powell coinvolge anche la moglie (e più tardi, quando saranno adulti, pure i figli) nel management del quartetto, lotta duramente a livello legale per tener lontano l’ex compagno Martin Turner dai diritti di uso e diffusione del monicker Wishbone Ash, si accontenta di concerti in teatri e locali senza perdere un’oncia di entusiasmo, fa tutto quel che c’è da fare per tirare avanti la storia del gruppo ed uscire ogni qualche anno con ulteriori canzoni a rimpinguare il già esteso repertorio, aiutato in questo dalle nuove tecnologie che permettono di registrarsi chitarre bassi e tastiere in casa, la batteria nello studio all’angolo, le voci dall’altra parte del mondo, lasciando solo i missaggi ad uno studio professionale e costoso, dotato di buoni altoparlanti ed ottime orecchie del gestore. Tutto questo Powell lo sta facendo ancor oggi, a 71 anni: massimo rispetto.

Ed ogni tot Andy, costretto o meno non si sa, cambia membri nel gruppo: stavolta tocca all’altro chitarrista Ben Granfelt accomodarsi all’uscita, sostituito da un altro finlandese che era stato poi il suo insegnante di musica: Jyrki (Giorgio) Manninen, detto “Muddy” perché adora il blues, ergo uno dei suoi maggiori eroi Muddy Waters, è un manico notevole sulla Gibson Les Paul. Per niente scandinavo nell’approccio e nella passionalità, tiene un suono caldo ed equilibrato, fantasioso e pieno di musicalità: un’addizione preziosa per i Wishbone Ash che con lui assumono nuova linfa, sia compositiva che esecutiva.

La cosa si estrinsecherà soprattutto sui dischi seguenti (Muddy rimarrà in organico per una dozzina d’anni e per quattro album, fino al 2017), ma già questo Clan Destiny si rivela essere ottimo lavoro, compatto e massimamente vario fra pezzi boogie (l’apripista “Eyes Wide Open” dal riff riuscitissimo oppure la più ricercata negli accordi e più pop “Slime Time”), ballatone semiacustiche trionfanti (“Dreams Outta Dust”), rock blues sudisti (“Healing Ground”, primo eccellente contributo di Manninen), pop rock galoppanti (“Steam Town”, con le due soliste modello Allman Brothers sopra l’irresistibile treno di basso di Bob Skeat), folk rock celticheggianti alla Wishbone Ash (“Loose Change”, peccato la voce di Andy non all’altezza), strumentali d’altri tempi (“Surfing a Slow Wave”, che piacerebbe senz’altro a… Beppe Maniglia), tre quarti intorcinati di nuovo in odore di Allman (“Capture the Moment”, zeppo di duelli chitarristici), ancora rock blues stavolta farciti di slide guitar ringhiante (“Your Dog”, Manninen è un asso con a far scivolare il ditale d’acciaio sulle corde), pensosi pensieri su accordi in minore (“The Raven”), fino alla blanda cover di chiusura (“Motherless Child”… Powell di nuovo dignitoso ma niente più al canto).

Wishbone Ash quindi più “americani” e più intrisi di blues del solito, da questo disco e per i prossimi tre. E tutto grazie alla presenza di un tizio di Helsinki ad una delle chitarre (quella a sinistra, nel panorama stereo)! Quattro stellette piene stavolta, e con Manninen nei ranghi non vi si andrà mai sotto (a mio gusto, s’intende), semmai sopra! Vedremo.

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