La “furtività elegante” (traduzione letterale del titolo) si applica perfettamente ai Wishbone Ash del passato prossimo e contemporanei: un gruppo rock dalla carriera non cosmica ma abbastanza gloriosa e forte, molto ben conosciuto da colleghi ed addetti ai lavori in grazia delle peculiarità melodiche e d’arrangiamento scovate e coltivate per il piacere, l’ammirazione e l’apprendimento di tanti.

Per tutti gli altri, per chi non ha ancora trovato il tempo di approfondirli un attimo, vale la sentenza seguente: sono la band ideale per chi vuole sentire tanta, tantissima chitarra di qualità. Non a livello di volume, o di distorsione, o di cattiveria, o di quantità di assoli: la chitarra è tanta, e tanto buona, soprattutto nel tessuto dei pezzi, negli arrangiamenti, nell’interscambio di idee e di leadership anche nel corso dello stesso motivo fra i due interpreti di questo magnifico strumento all’interno della formazione. Poi ovviamente si incontrano pure dei begli assoli, con giusto numero e frequenza di note, “caldi” più che virtuosi, e sempre con un grandissimo suono a sostegno.

Cosa cambia in questo disco (anno 2011) rispetto agli immediatamente precedenti? Non la formazione del quartetto, che per una volta resta la stessa. Le novità sono una bella copertina finalmente (cosa assai rara, per i Wishbone) e un certo indurimento del suono: le chitarre sono decisamente più distorte del solito in molti frangenti, e il basso ancor più profondo.

Accidenti alle mode e al tempo che passa! Un brano come quello di apertura “Reason to Believe” dotato com’è, a fine ritornello, di un coro semplicemente delizioso e superbamente agganciante (riascoltando la canzone dopo averci preso la mano, non si vede l’ora che arrivi quel refrain “Reason to belieeeve, reason to belieeeve…”), dovrebbe arrivare a milioni e milioni di appassionati di rock con relativo appeal commerciale, e non rimanere invece privilegio di relativamente pochi fan. Che mondo bacato!

Warm Tears” ha una strofa ostica in up-tempo ma poi un bel chorus disteso e iper melodico, molto britannico, con le chitarre in unisono al sapore di giga scozzese, faccenda assai consueta nel repertorio dei Wishbone Ash.

Man With No Name” suona invece più americana e leggermente più pop, con un ritornello irresistibile grazie ad accordi ricercati e sorprendenti, nel quale il buon Andy Powell mostra i suoi apprezzabili progressi al canto, ma c’è anche l’altro axeman Muddy Manninen che vi si diverte, con un assolo pesante e fragoroso alla Black Sabbath: molto dinamica.

Una delle chicche in giro per l’album prende il titolo di “Can’t Go It Alone”. Le tante chitarre vi rintoccano sapienti, pulite e scampanellanti negli arpeggi oppure toste e rigorose negli stacchi sincopati. Gira qua e là pure il violino di un non accreditato ospite. La sezione strumentale è un irresistibile mosaico di chitarre in armonia e di improvvisi guizzi in assolo, il meglio possibile per questo attempato ma pugnace manipolo di veterani del rock, ancora capaci di intrattenere e talvolta entusiasmare, e questo è uno dei casi… nel testo compare persino la parola wishbone!

Give It Up” è una ballata in mid tempo di piacevolissima atmosfera. Andy vi racconta l’ennesima, rassegnata storia della fine di un amore e della conseguente decisione di “dargliela su” e condisce il tutto con un assoletto pulito pulito alla Dire Straits.

Immancabile la ballata risonante e dondolante, un altro marchio di fabbrica. Stavolta prende il bel titolo di “Searching for Satellites” e impenna nuovamente l’album grazie ad un meraviglioso, sognante ritornello “…There’s only an answer, and the answer is looove”. Da singulti d’emozione la fase strumentale, colle chitarre in assolvenza, risonanti alla massima potenza e liricità, fino alla fine.

Heavy Weather” esordisce con una ritmica scorbutica, alla “Money” dei Pink Floyd, per poi aprirsi nell’ennesimo disteso ed armonicamente ricercato, riuscito ritornello nonché mutare in hard rock deciso nell’epilogo strumentale. Lode al batterista Joe Crabtree capace di legare efficacemente le varie parti così diversificate.

Un vero tuffo in direzione dei Deep Purple è rappresentato dalla strumentale “Mud-Slick”. In effetti vi appare come ospite il loro organista Don Airey. E quindi chitarre a sinistra e al centro, organo Hammond a destra, un tema principale a far da canovaccio e poi interscambi di assoli come piovesse, quello di Airey assolutamente potente. Che strumento l’Hammond! Nelle mani di uno bravo poi…

Big Issues” cela per un po’ il suo cuore prezioso. Comincia strappata e violenta con il basso slappato e gli obbligati di chitarra a sostenere un cantato spezzato e blueseggiante. Ma al terzo minuto, inaspettatamente, la canzone si raddrizza a boogie melodico, pilotato dal treno del basso e ben presto a seguire… cinque minuti di assolo di chitarra! Mi viene da piangere al pensiero… i due omini addetti alla sei corde danno tutto, ma proprio tutto, prima uno e poi l’altro, senza annoiare neanche un secondo. Ispirati grosso modo dal finale di “Free Bird” dei Lynyrd Skynyrd, mordono il cotozzo alla base della testa, quello coi peli che si drizzano: Lo fanno dall’inizio alla fine senza mercè e quando il pezzo sfuma, dopo quasi otto minuti, è un vero peccato. Puttana miseria che bravi!

Il funky rock ”Migrant Worker” arriva che non ci si è ancora ripresi dalla botta di chitarra subito precedente e fa perciò la figura del riempitivo, colla sua ritmica saltellante e i suoi accordi in ordinata scesa.

La chiusura “Invisible Tread” non dice molto nella parte cantata ma per l’ennesima volta acchiappa nelle sezioni strumentali, nelle quali assume liricità ed epica. Le sue chitarre rintoccanti e pregnanti e aggraziate rimbalzano nel cervello creando benessere e ammirazione. Dopodiché la sorpresina: un minutino di silenzio e arriva in assolvenza la ghost track, rappresentata da una ripresa dell’apripista “Reason to Believe” in versione… apripista, techno e danzereccia. Un piccolo ritorno ad una quindicina d’anni prima, quando i Wishbone Ash fecero uscire un paio d’album techno-dance di buon riscontro presso le discoteche americane

Stavolta i Wishbone l’hanno fatta grossa: disco senz’altro da nove e mezzo, vario, pieno di buonissime melodie e delle solite auguste chitarre: cinque stellette, è fra i loro quattro o cinque migliori. Dopo quarant’anni di carriera, alla faccia.

Carico i commenti... con calma