Dicevamo precedentemente che i Wishbone, dati per finiti a metà anni ottanta per non essere riusciti a cavalcare le onde modaiole del tempo, né quella melodico/metallara né l’altra sintetica e new wave, vengono per buona sorte rintruppati nel giro di un paio d’anni, seppur piegati ad un disco strumentale assai impersonale ed estraneo alle loro corde, e comunque messi di nuovo on the road, finanziati di tutto punto.

Il disco strumentale e soprattutto i concerti hanno un soddisfacente seguito; le esibizioni dal vivo in particolare li rassicurano circa il gradimento del pubblico, del resto il quartetto è sempre stato molto abile e aggraziato su di un palco, in possesso com’é di un repertorio “storico” in grado di graffiare ancora. E allora ecco il quattordicesimo album di carriera, con l’ennesima copertina un po’ così, nuovamente con tutti e quattro i fondatori della band al loro posto come il precedente, ma stavolta a cantare oltreché suonare.

Solo due di loro dietro al microfono, però… stavolta il chitarrista Andy Powell non apre bocca e suona solamente. Pare in verità piuttosto scazzato e distratto, visto che non compone alcunché ed alla chitarra si fa sormontare nettamente dal collega Ted Turner, qui dominante a livello strumentale. Nel lavoro precedente “Nouveau Calls”, quello dell’inopinato ritorno di Ted dopo una quindicina d’anni, non si avvertiva particolarmente la sua presenza, in quel guazzabuglio mezzo new age pilotato da forze esterne, diciamo così. Qui invece questo musicista mostra in pieno la sua evoluzione artistica: suoni nuovi e più corposi, strumenti nuovi (in particolare molta lap steel, la chitarra che si tiene in grembo scorrendo sui tasti con una barretta di ferro), una deliziosa incisività melodica, una bella freschezza. Sua anche la miglior voce delle due messe a disposizione per queste registrazioni; la sua emissione è delicata (per i canoni rock) ma suggestiva e toccante, very english.

L’altra voce è quella dell’altro Turner (nessuna parentela), il bassista Martin. I due si dividono le incombenze compositive e ciascuno canta le sue canzoni. Le più belle sono quelle del chitarrista.

Ad esempio “Why Don’t We” che gode di una ritmica saltellante, coll’arpeggio di chitarra che ricorda un poco per suono, stile ed uso estensivo dell’eco ribattuto, le pennellate di Andy Summers coi Police. Il brano rotola generosamente ma senza minimamente stancare fino ai sei minuti e oltre, sapido e lirico, colla bella voce di Ted Turner a tracciare le sue invocazioni e ad intervallarle con squisiti attacchi di chitarra solista: gran bel pezzo!

Degli altri suoi brani, “Keeper of the Light” è più aggressivo, valido anche se non altrettanto toccante. “Mental Radio” espone brillantemente la sua ispirazione alla lap steel di cui si diceva ed anch’esso appare non lontanissimo dallo stile Police. In “Witness to Wonder” invece la chitarra rintocca magicamente in un mare di echi, ad accompagnare una melodia molto atmosferica e squisita: altra eccellenza dell’album.

Per quanto riguarda le creazioni del bassista Martin Turner, anch’esso si difende bene nell’occasione, apparendo ispirato nell’iniziale “Cosmic Jazz”, ben spalleggiato dalla solista del suo omonimo. Stessa cosa per “Walk on Water”, dove nelle strofe si apprezza il gioco delle due chitarre diversamente ritmiche, una in battere e l’altra in levare; nei ritornelli invece si passa a godersi la bella melodia vocale.

Ancestrali rullate celtiche inizializzano ed intercalano “Lost cause in Paradise”, che in fondo in fondo delude perché la canzone non riesce a dotarsi di una melodia interessante; comunque è bello risentire la componente folk, dei Wishbone Ash, così importante e inebriante nei loro primi album. “In the Case”, sempre firmata dal bassista, è invece uno strumentale senza nerbo, decisamente uno scarto del precedente album.

La finale “Hole in My Heart”, segue uno schema più volte già battuto dai Wishbone per concludere in maniera “epica” i loro lavori. E’ divisa in due parti, la prima rarefatta e tranquilla, un po’ alla David Gilmour, mente la seconda (l’unica firmata coralmente dai quattro musicisti) è un’estesa cavalcata strumentale.

Secondo me questo disco è venuto fuori così: Ted Turner aveva accumulato alcune buone composizioni nel periodo in cui non era in formazione. Stessa cosa per Martin Turner. Ci hanno aggiunto un avanzo di “Nouveau Calls”, sviluppato strumentalmente l’ultimo brano ed il gioco era fatto.

Andy Powell non interessato, e quindi pressoché assente dai giochi. Si rifarà in seguito, e con gli interessi! Ma queste sono altre, future pagine della semi-secolare grande storia dei Wishbone Ash.

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