Per tutta la prima parte degli anni novanta i Wishbone Ash, senza valido contratto discografico, vivacchiano come possono con una serie di musicisti in entrata e successiva, rapida uscita peggio che da una porta girevole. Qualche album Live, un paio di Best Of e soprattutto una decente attività dal vivo costituiscono in quegli anni le indispensabili iniziative per confortare, e continuare a tenere in vita, la formazione.

Finché il cocciuto Andy Powell, l’unico dei quattro musicisti fondatori a non essersi arreso alla decadenza della band ed a questo punto unico detentore del marchio Wishbone Ash, si riorganizza pescando in America tre ottimi musicisti e arrangiandosi con una piccola etichetta discografica per far uscire nuovamente musica inedita.

L’opera che ne risulta, datata 1996, è sorprendente: un gran disco, a mio giudizio quantomeno fra i migliori tre di carriera. Cosa è mai successo? Congiunzioni astrali? Chissà… il fatto è che la musica ed il suono sono quelli giusti, senza più le cattive regole degli anni ottanta: hard rock melodico alla Wishbone e cioè con tantissime chitarre, spesso e volentieri a giocare in armonia fra di loro, e poi squisiti ritornelli corali, fantasia ritmica, buona produzione, ficcanti assoli…

Il valore aggiunto più importante è probabilmente l’ingresso, purtroppo una tantum, di un cantante molto valido, senz’altro la voce migliore mai annoverata dalle mille formazioni dei Wishbone, passate e future. Il benemerito tizio si chiama Tony Kishman e viene scoperto da Powell mentre si esibisce colla sua cover band dei Beatles (lui nel ruolo di McCartney)! Una bella voce chiara ed estesa, pulita ed espressiva, niente di spettacolare ma con un’incantevole qualità.

Al basso Kishman non è niente di che, ed infatti glielo fanno suonare solo dal vivo… Su questo disco ci pensa invece il chitarrista nuovo arrivato, certo Roger Filgate anch’esso recuperato dal sottobosco delle cover band americane dei Beatles. Pure questo musicista, come tutti i chitarristi precedenti e seguenti della storia di questo gruppo scelti in affiancamento all’irremovibile Powell, è un solista migliore di quest’ultimo (vi sarà una sola eccezione in merito, vedremo in un prossimo futuro)! Gran bel tocco, sobrio e ficcante, ed inoltre con spiccate capacità di compositore, di produttore e di bassista. Un vero factotum.

Il mio momento favorito dell’album si trova su “Tales of the Wise”, la quale ha la vistosa durata di dieci minuti ed oltre. Parte magnificamente, a chitarre distese, come ballata (vagamente) blues, aggraziata e melodica, resa rarefatta dagli arpeggini carichi di chorus e dal basso a staccare tranquille semibrevi. Dopo tre minuti e mezzo un break di batteria cambia l’atmosfera innestando un tempo medio/veloce, sul quale il basso s’inturgidisce e le chitarre partono con gli abituali giochini, alternandosi fra unisono ed armonia e poi scambiandosi un paio d’assoli. A sesto minuto inoltrato torna il tempo lento a chitarre strascicate, che però invece di risolversi in una prevedibile ultima strofa, consiste in quattro ricchi minuti di emozionante scambio di assoli (quattro volte) fra i due soci alle sei corde: vero festival di come va suonata la chitarra solista, sì da penetrare a fondo nei cuori e negli stomaci degli appassionati. Specie il suono grasso e maschio della Gibson Les Paul (Filgate) è qualcosa di impagabile, che strappa i sentimenti.

Nella lista dei brani eccelsi del lavoro non può non essere citato quello di apertura “Mountainside”, una generosa cavalcata di oltre sei minuti ripiena di buone melodie, risonanti chitarre, validi cambi ritmici, e grande coesione fra le varie parti componenti.

La successiva “On Your Own” è un boogie moderato dall’elegante scansione ritmica, con inserti di chitarra slide da parte di Filgate che la rendono vagamente “sudista”, così rotonda e accattivante. “Top of the World” che segue fa risaltare la voce molto pop, ben controllata di Kishman, in particolare quando si distende e si triplica armonizzandosi in un ritornello paradisiaco: gran bella cosa pop rock, io ci vado in solluchero con queste musicalità così dispiegate.

No Joke” è l’unico dei dodici brani presenti cantato dal boss Andy Powell, piacevole e saltellante colle due chitarre in assoluto affiatamento ritmico insieme al basso, tanto che i quasi sette minuti che la costituiscono passano senza cali d’interesse o tanto meno lungaggini, compreso il finale nuovamente in stile sudista, stavolta non rilassato bensì strappato e rabbioso alla maniera dei Lynyrd Skynyrd. Nulla di meno che positivo si può dire anche per la semiacustica “Another Time”, pur essa ben arrangiata e cantata, con una porzione strumentale stavolta virtuosamente in odore di progressive ed in particolare grande vetrina per il nuovo batterista Mike Sturgis energumeno pieno di tecnica e buon gusto, un professionista che ha avuto modo di suonare con tutti (Bowie, Elton John, Asia…) e trovare anche il tempo di diventare apprezzato insegnante accademico di percussioni.

A Thousand Years” è piacevole ma meno pretenziosa, molto pop rock anch’essa, si sente che l’ha composta il cantante perché ha una melodia insolita per i Wishbone, ma qui in mezzo a tali eccellenze ci fa la figura del riempitivo. Più o meno come la successiva ”The Ring”, dal poderoso riff acustico, la quale per parte sua ricorda invece il modo di comporre le linee vocali di John Wetton degli Asia.

Dopo la coppiola di numeri più lineari ed accessibili, il nodoso rock blues “Comfort Zone” ci sta proprio bene, col suo incedere pesante e strappato, il basso metallico in piena evidenza, le due chitarre gemelle ad abbaiare in armonia nella porzione strumentale. Ed ancora rock blues si respira in “Mistery Man”, dall’indovinato riff di slide guitar a tornare ciclicamente, a sostegno della parte cantata che appare invece prevedibile, poco convinta e fin troppo ortodossa; l’assolo di slide è una chicca, che bravo Filgate!

Gli ultimi due brani sono brevi (gli unici sotto i quattro minuti), il primo di essi ben poco significativo... “Wait Out the Storm” è l’unico, autentico momento totalmente soprassedibile del disco, mentre “The Crack of Down” (accreditata come bonus track, evidentemente sul vinile non ci stava) è uno di quegli strumentali molto english gia sentiti dai Wishbone Ash ma sempre piacevolissimi: chitarre acustiche che infiorettano e sopra di loro le due soliste a disegnare panorami folk rock fatti di castelli e fiumi, foreste e cavalieri al galoppo, nuvoloni e umidità, camini accesi e boccali di birra scura e forte.

“Illuminations” è titolo d’album quanto mai pertinente, perché nel lunghissimo cammino del quartetto inglese rappresenta una tappa veramente luminosa. Con questo colpo di reni i Wishbone Ash venticinque anni fa ingrossarono il loro sterminato repertorio con un pugno pieno di canzoni fra le loro più squisite, meglio suonate e meglio cantate.

Cinque stelle allora… e peccato che anche questa formazione si sia squagliata ben presto, ma i sostituti saranno all’altezza, fortunatamente. Che gran disco!

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