Introduzione:

E’ il sesto della trentina (!) di album di studio pubblicati dalla band britannica dal 1970 ad oggi. Ed è il loro assoluto nadir. ‘Na chiaveca, direbbero a Napoli.

Scialbo, con brutti suoni, idee melodiche poco interessanti, cori stonatielli, performance raccapriccianti alla voce solista dell’allora ancor recente ultimo acquisto il chitarrista Laurie Wisefield. Quando invece a cantare è il bassista Martin Turner non è che le faccende vocali si elevino di molto… ma almeno non odorano di dilettantismo.

Produzione moscia e sfrontatamente anti-rock del più moscio dei produttori famosi e cioè Tom Dowd, quello degli Allman Brothers e di Eric Clapton. Brr.

Contesto:

Dopo tre lavori iniziali bellissimi e in continuo crescendo, fino a raggiungere con “Argus” il successo a livello planetario, i Wishbone pestano il primo merdone col quarto disco l’insipido “Four”, cambiano uno dei due chitarristi, si trasferiscono in America ma insistono a pestare cacche col quinto “There’s the Rub” e persistono anche con questo qui. Dopodiché tornando a vivere in Inghilterra si riprenderanno, alla grande pure, però a quel punto i treni importanti saranno tutti passati… La maggior parte degli appassionati avrà perso interesse e da lì in poi la carriera sarà più che dignitosa ma niente di epocale, ed album anche molto belli non riusciranno a sfondare. Peccato.

Cagate sparse in quantità:

Consentitemi di divertirmi a sottolineare una lunga serie di cose che NON funzionano, disseminate fra gli otto brani che costituiscono l’opera:

Rest in Peace”: primo stacco batteria/chitarra fuori tempo, subito! Tanto per far capire chi è il produttore e quanta poca cura ci sia nel suo lavoro. Ve ne saranno altre, di imprecisioni esecutive fastidiose, lungo l’album. Ma ciò che scassa i maroni è la petulante presenza del talk box, qui subito a tediarci dal canale destro. Gli era che in quell’anno 1976 Peter Frampton aveva fatto un successone col suo LP doppio dal vivo “Comes Alive”, nel quale il suddetto talk box veniva usato in un paio di episodi. Il chitarrista Andy Powell se ne procura uno, se lo infila in bocca e qui imperversa. E siccome quest’effetto di chitarra stupisce e “prende” la prima volta, ma stufa subito alla seconda… e poi con esso bisogna fraseggiarci bene, come fatto dal suddetto Frampton o da altri tipo Joe Walsh. Qui invece i Wishbone vi si baloccano usandolo per contrappuntare le parti cantate, con ineffabile piattezza e un suono di merda.

No Water in the Wall”: ballatona introducente la voce indecorosa di Laurie Wisefield, un metro e sessanta di bravo chitarrista, ma al tempo quasi a digiuno di tecnica vocale. Timbro brutto, vibrato incerto, non lo si può reggere. Peccato, perché la chitarra solista lavora bene, nel consueto loro stile “Allman Brothers de noantri”.

Moonshine”: Già che Steve Upton come batterista non è mai stato una cima, carente com’è di “tiro”, di espressione, di inventiva. Nelle mani di Tom Dowd il suo treno (?) ritmico irrita definitivamente; sul charleston albergano la rigidezza e la metronomicità ottusa di un Don Henley… Che per gli Eagles va bene, chissenefrega, tanto c’è altro da ascoltare, ma in un gruppo rock blues folk progressive come i Wishbone, che necessitano di impatto per essere efficaci colle loro melodie rarefatte (e dal vivo sono sempre riusciti ad esserlo), non ci siamo. Wisefield ci dà di nuovo dentro con un timbro secchissimo, molto clavicembalo elettrico alla Stevie Wonder di “Superstition” già usato nel brano d’apertura. Il brano è suonato abbastanza bene, ma cantato maluccio dal bassista Turner.

She Was My Best Friend”: ballata insipida cantata nuovamente da Turner, che non ha la bravura sufficiente per sostenere le note lunghe a gola spiegata come pretende qui di fare.

It Started in Heaven”: mamma mia, Wisiefield qui si scatena in un Dylanismo più sciatto e stonato ancora di quanto è solito propinarci il maestro del Minnesota. Poi arrivano le chitarre soliste in armonia, marchio di fabbrica dei Wishbone, a ricordarci che siamo su “Locked In” e non su “Desire”.

Half Pasy Lovin’”: lo sciagurato talk box imperversa nuovamente, contrappuntando le frasi musicali di rhythm & blues ultra standardizzato di Martin Turner. Che al solito urla e strozza di voce oltre i suoi limiti, in un’imitazione grottesca di Wilson Pickett/John Fogerty/Rod Stewart.

Trust in You”: parte bene, profonda e cadenzata, finalmente con sufficiente corpo. Poi però arriva la vocina del chitarrista Powell, povera e sola, e tutto precipita un di bel po’. Come produce male le voci Tom Dowd!

Say Goodbye”: ballatona semiacustica in minore, tipica del gruppo, con bruttissima batteria (suono, specie i timpani, ed esecuzione), esanime chitarra distorta nel ritornello, cori imprecisi e ripetitivi. E fine.

Giudizio finale:

Già la copertina, insipida anzichenò, dice tutto. Album solo per completisti (come me). Dei Wishbone procuratevi “Pilgrimage” (1971), “Argus” (1972), “New England” (1976), “Just Testing” (1980), “Twins Barrell Burning” (1982), “Illuminations” (1996), “Bona Fide” (2002), “Clan Destiny” (2006), “Blue Horizon” (2014). Il gruppo ci ha rilasciato (e ancora non smette) tonnellate di eccelso rock melodico, debole nei cantati ma esaltante nelle parti chitarristiche.

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