A monte di questo loro nono album, i Wishbone prendono alcune sagge decisioni, mollando le sirene americane e riprendendo a risiedere nella natia Inghilterra, coronando poi il tutto riaffidandosi al produttore Derek Lawrence, artefice del crescendo rossiniano dei loro primi tre album di carriera, a quel punto lontani nel tempo più di un lustro.

I suoni si fanno finalmente corposi, col “fondo” di basso e grancassa in grado di sostenere adeguatamente le evoluzioni di chitarre (due) e voci (tre), nutrendo così la pancia rock dell’ascoltatore, oltre che la mente. “No Smoke Without Fire” è insomma un album compiutamente hard rock dei Wishbone Ash, il primo! Sempre melodico, ma infine risonante, tosto, scuoti chiappe.

Bastano i primi secondi del disco, con gli stacchi corposi di chitarre tamburi e piatti sui quali si distende un’armonia a tre voci dai tratti caratteristici del gruppo, per sentire il “salto” di sound rispetto a tutto quanto inciso in precedenza. “You See Red” comunque non è granché… meglio la seconda “Baby the Angels Are Here”, dotata di strofa poco interessante ma di succoso ritornello, oltre naturalmente ai soliti begli assoli di entrambi i chitarristi, il riccioletto Laurie Wisefield e l’incanutente Andy Powell.

Ships in the Sky” spicca! Pare uscita da un disco di David Crosby: arpeggio ipnotico e pulito, cori californiani in stile America, la doppia solista ad armonizzare invece melodie vagamente celtiche. Persino Wisefield, un vero cane sentito fin lì a cantare il ponte dell’iniziale “ You See Red”, se la cava qui più che bene. La successiva “Stand and Deliver” è assai succosa perché oltrepassa i sette minuti, nei quali avvengono tante cose, da un riff scontatissimo ad un bella melodia nel ritornello ad una sezione centrale schizzata di progressive, con cambi provvisori di tempo, di timbri chitarristici, di botta e risposta fra gli strumentisti.

In “Angel in Harmony” le chitarre armonizzate fanno smaccatamente il verso a quelle degli Allman Brothers ed anche cantato e scambio di assoli profumano di southern rock, infatti Wisefield qui si diletta alla americanissima slide guitar. “Like a Child” invece è macchinosa, a partire dall’inizio strumentale e poi con quel caracollare semiacustico e relativo coro non molto ispirato, già sentito mille volte da loro. Persino l’assolo conclusivo è di nessun interesse, cosa rara coi Wishbone.

Una vera concessione ai primi tempi ed ai fans della prima ora risulta infine essere la conclusiva “Way of the World”, composizione a struttura bipartita di oltre nove minuti totali. La prima parte esordisce col solito arpeggio di qua e solista lamentosa di là, in contrappunto: un marchio di fabbrica, sempre efficace quando melodia e accordi sono sapidi come qui è il caso. Tra un cantato e l’altro si innesta una parte strumentale ben più decisa e rock, secondo i più squisiti dettami del progressive, genere musicale sovente frequentato dai Wishbone agli inizi, il quale in sostanza aveva determinato il loro successo (erano gli anni buoni per quella roba… i primi settanta).

Con un’assolvenza inaspettata e risolta in maniera molto intelligente, arriva la seconda parte della composizione, dall’andamento più lesto ed epico. Ancora qualcosa da cantare per il bassista Martin Turner, poi esplode un interminabile festival di circonvoluzioni chitarristiche di tutti i tipi, senza vergogna! Insomma, questo brano va a collocarsi accanto ai vetusti e gloriosi “Phoenix” (dal primo disco “Wishbone Ash”), “The Pilgrim” (dal secondo “Pilgrimage”), e “The King Will Come” (dal terzo “Argus”) nella collezione dei momenti epici, progressivi della formazione. Senza sfigurarne affatto, per sopramercato.

Come sempre in quegli anni, la copertina è del mitico studio Hipgnosis, quello di Pink Floyd, Led Zeppelin, 10cc, Alan Parsons’ Project e tanti altri. Solo che pare che ai Wishbone tocchino solamente i fondi di magazzino… anche questa elaborazione, come le precedenti, dice poco: un patchwork confuso e poco incisivo di foto in bianco e nero e tratti geometrici e macchie di colore. Chissà se era il budget ristretto o loro che si accontentavano di poco… non lo si saprà mai.

Mezza stelletta in più per la produzione finalmente efficace nei bassi, quindi quattro stelle di valutazione a questo album targato 1978 della Cenere dell’Osso del Desiderio, quello dei polli.

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