I Wishbone Ash (denominazione traducibile in italiano con un devastante "Cenere di forcella di pollo") sono un quartetto inglese dedito ad un blues rock composto e melodico, ammorbidito e variegato, almeno nei primi anni di carriera, da cospicui innesti folk e progressive. Loro riconosciuto punto di forza è l'accurato e suggestivo arrangiamento per doppia chitarra solista di tutto il repertorio, mentre l'indubbio elemento di debolezza è sempre stato la mancanza di una consistente e carismatica voce solista.

Forse conscio di ciò, il gruppo allestisce la miseria di sole tre liriche per i sette brani compresi in questo secondo album, due dei quali veri e propri strumentali, mentre gli altri due sono risolti con gorgheggi a tre voci di stampo jazz, senza parole di testo. Quelli erano tempi (siamo nel 1971) nei quali erano consentite anche queste cose... il disco riuscì, infatti, a scalare discretamente le classifiche del Regno Unito, preparando la strada al terzo e vendutissimo album "Argus", dai contenuti molto simili a questo e di qualità, a mio avviso, neanche troppo superiore.

Wishbone Ash è perciò una formazione della quale viene naturale e logico ascoltare quel che combinano le chitarre, prima di tutto il resto: la pervicacia ed organizzazione con cui la coppia di solisti, al secolo Andy Powell e Ted Turner, sistemava le proprie rispettive partiture non aveva uguali in ambito rock. Il suono composito che si veniva a creare era qualcosa di diverso e superiore alla semplice somma dei due strumenti, ed ha permesso loro di scrivere una propria, peculiare pagina nel grande libro del rock, guadagnando il rispetto di gran parte degli addetti ai lavori.

Dei soli tre brani forniti di testo, due sono nient'altro che rock'n'roll, uno di essi pure dal vivo. Ma sono splendidi! Naturalmente per meriti chitarristici... Quello inciso in studio si intitola "Jail Bait", intraducibile slang anglosassone riferito alle minorenni già ben sviluppate sessualmente; dato il piccante soggetto, esiste un congruo manipolo di canzoni con questo stesso titolo (opera di marpioni come Eric Clapton, Aerosmith, Motorhead, Ted Nugent...), tutte beninteso differenti l'una dall'altra. Questa di "Pilgrimage" è cantata dal chitarrista Powell, ma vive soprattutto degli scambi di assolo, degli spettacolari incroci di note e degli stuzzicanti obbligati in armonia delle twin guitars, ulteriormente dinamicizzati dai classici, immancabili stop&go della sezione ritmica.

Il secondo rock'n'roll, prelevato come detto direttamente da un concerto, è posto in chiusura del disco e dura oltre dieci minuti, dilatato com'è dalle classiche sovrastrutture da tipico Encore, ossia cavallo di battaglia riservato come bis per concludere lo spettacolo. Comprende quindi assolo interminabili, invocazioni e coinvolgimenti del pubblico, riduzioni del volume a pianissimo appena mormorati, preludio a successive, accecanti esplosioni di suoni eccetera eccetera: evidente la voglia del gruppo di fissare per sempre, su di un disco per il resto realizzato in studio, una performance particolarmente esuberante e ben suonata.

L'ultimo dei brani cantati "Valediction" è una ballata folk a tre voci, piuttosto lagnosa ma con le solite chitarre in gran spolvero, sia a disegnare insieme la melodia portante del ritornello che (in particolare quella di Turner) a "parlare" nel lungo assolo, riuscendo in un emozionante fraseggio di senso compiuto, cui fa da contrappunto il basso creativo di Martin Turner (nessuna parentela col chitarrista Ted).

Molto folk la prima parte di "The Pilgrim", il brano più ambizioso dell'album: deliziosi contrappunti elettroacustici in punta di dita fino all'irruzione, in assolvenza, di un robusto groove elettrico in sette quarti, dove tutto il gruppo si scatena per lunghi minuti, entrando decisamente in ambiente progressive, col classico condimento a base di cambi di ritmo e d'atmosfera. Le chitarre mantengono sempre grande interesse e pregevolezza di suono, costantemente in primo piano ad esclusione di un breve intarsio vocale, che vede i tre cantanti (i due Turner e Powell) questa volta in unisono, alle prese con una melodia swingante, a guisa di sezione jazz di ottoni.

Stessa cosa per il brano d'apertura "Vas Dis", stavolta una cover, precisamente di uno standard dell'organista jazz Jack McDuff. Il lavoro delle tre voci in unisono, sul lungo tema che caratterizza il pezzo, è stavolta predominante e surclassa, nell'occasione, le egemoniche chitarre (ma non il basso di Martin, che scorrazza agile in lungo e in largo).

Gli ultimi due brani, strumentali brevi e di riempitivo, sono pregni di deliziosi arpeggi elettroacustici, terribilmente... britannici (adattissimi, per dire, a scampagnate verso Stonehenge o posti simili), coi loro arabeschi sonori suggestivi e delicati, a merito del chitarrista Ted Turner, a mio gusto il musicista più interessante dei quattro. A lui faceva capo la componente folk e progressive del suono Wishbone Ash, raggiunta con uno stile semplice e fascinoso, al quale a suo tempo ha sicuramente prestato orecchio più che interessato gente come Mike Oldfield, i Camel e gli stessi Genesis.

I Wishbone Ash sono tuttora in attività, sia discografica che, soprattutto, concertistica. La formazione ha visto avvicendarsi, da quarant'anni a questa parte, uno stuolo di chitarristi, bassisti e batteristi intorno all'unico punto fermo, il biondo (una volta... da tempo sfoggia la classica pelata integrale) e rocchettaro Andy Powell, logicamente assurto negli anni ad una posizione egemone all'interno del gruppo, da lui saldamente tenuto nell'ambito del rock melodico, più o meno hard a secondo dei periodi e dei collaboratori scelti, ma sempre coll'inconfondibile marchio della casa: le twin guitars.

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