Ricordo di essermi svegliato abbastanza presto quella mattina. Ero in vacanza ma non mi importava, era una cosa che facevo volentieri.
Le vie di Glastonbury alle 6:00 di mattina erano ancora addormentate: nessuno in giro, giusto qualche senzatetto che dormiva sotto i portici della chiesa; l'aria era già fresca, frizzante, positivamente tesa, una caratteristica che ormai avevo imparato a conoscere e ad apprezzare, tipica di quel posto.
Mi incammino verso la Tor: superato il centro città e imboccata una via secondaria inizio a salire le scale ricavate nella terra, in cuffia le parole di un bardo inglese, mi parlano di leggende antiche, di nature incontrastate, di luoghi magici. Arrivo al cancello in cima alla scalinata, lo oltrepasso e inizio a salire la collina. Il cielo è splendidamente chiaro, intorno a me la tipica nebbiolina mattutina, mentre i belati delle pecore al pascolo fanno da contorno ai miei passi in solitaria. Arrivato a metà salita mi volto ad osservare il paesaggio: Glastonbury come Sleepy Hollow, una cittadina in una vallata affogata dalla bruma inglese, dormiente e pacifica. Ripresa la scalinata è un attimo arrivare ai piedi della Torre di San Michele: alzo gli occhi e la sua maestosità mi inebria. Si alza un leggero vento, i cardi dondolano, c'è una sensazione di elettricità nell'aria, di magia, di positività. Varcato l'ingresso della torre un raggio di sole mi sorprende e per un attimo mi acceca: quando riapro gli occhi ho davanti agli occhi la scena più bella di tutta la vacanza. Il sole che sorge in lontananza, i greggi di pecore sparpagliati lungo il pendio della collina, l'erba verde che asseconda il vento, e soprattutto la calma, la pace, la lontananza da tutto e da tutti e allo stesso tempo la comunione di anime e spiriti. Mi siedo dentro la Torre, in una delle panchine di pietra ricavate al suo interno, occhi chiusi, accarezzato ora dal vento, ora dal sole, e respiro. La magia del momento è amplificata dalla musica che ho in cuffia: è il bardo di prima, le sue parole calde, i cori che sostengono e abbracciano gli strumenti, tutto concorre nel rendere l'emozione del momento tangibile. Non succede nulla di speciale, alla fine sono solo una persona che se ne sta seduta con gli occhi chiusi dentro un'antica torre, aspettando il sorgere del sole e ascoltando musica, ma è questo "niente di speciale" che rende questi momenti così indimenticabili. E commoventi, quando mesi dopo ti trovi a riascoltare quella musica e a ripensare a quelle scene.
In un precedente scritto avevo parlato del debutto a firma Wolcensmen come di "un disco fatto di piccole cose, di piccoli gesti, di piccole emozioni e gioie, così come la natura inglese oggetto delle canzoni che lo compongono". Ebbene non posso che ripetere e enfatizzare questa descrizione. "Songs from the Mere" è un EP, una raccolta di pezzi che seguono il filo logico del precedente "Songs from the Fyrgen" allo stesso tempo però distanziandosene per certi aspetti. Musicalmente però le soluzioni scelte sono le medesime, chitarre arpeggiate, fiati, percussioni, tappeti di synth mai invasivi, cori, per un disco di neofolk/ambient da ascoltarsi tutto di un fiato.
Tutti coloro che hanno avuto esperienze non dissimili da quella descritta non avranno difficoltà a riviverle tra le tracce create dal Nostro. Per tutti gli altri un invito ad approcciarsi a questo lavoro con il cuore aperto e con la voglia di lasciarsi andare, per un attimo, ad atmosfere antiche e ricche di pathos.

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